(di Paolo F. Cuzzola) – Sara Mahmoud è una cittadina italiana, figlia di egiziani, studentessa universitaria in Beni Culturali all’università Statale. Ha fatto ricorso al Tribunale di Lodi contro la discriminazione razziale per ristabilire quello che ritiene un suo diritto: “Portare il velo come prescrive la mia religione senza essere ingiustamente penalizzata sul lavoro e nella società”.
Sara indossa lo hijab, il tradizionale velo islamico ed ogni volta che entra in contatto con un datore di lavoro, arriva un rifiuto.
A tal proposito è opportuno effettuare delle distinzioni che sono ignote a molti lettori. Esistono diversi tipi di velo in uso tra le donne musulmane. Ognuno di essi è fortemente legato all’area di appartenenza geografica della donna e ne riflette la cultura, anche oltre l’aspetto puramente religioso. Viene chiamato genericamente hijab il normale foulard che copre i capelli e il collo della donna, lasciando scoperto il viso. Sebbene nel Corano la parola venga utilizzata in maniera generica, oggi è diffusa per indicare la copertura minima prevista dalla shari’a per l’uomo e soprattutto per la donna musulmana. Questa copertura prevede non solo che la donna veli il proprio capo (nascondendo fronte, orecchie, nuca e capelli), ma anche che indossi un vestito lungo e largo, in modo da celare le forme del corpo.Il Corano utilizza anche due termini più specifici a proposito dell’abbigliamento femminile:
• Khimar: normalmente viene identificato in un mantello che copra dalla testa in giù: alcuni modelli arrivano fino a sotto i fianchi, altri fino alle caviglie; a seconda della tradizione locale può avere un velo che copre anche il viso.
• Jilbab: un lungo abito che copra completamente il corpo della donna. Oggi si usa come sinonimo di “abaya”
Dopo questa doverosa precisazione finalizzata a rendere edotto il lettore, che molto spesso confonde il velo (hijab) con il burka (per lo più azzurro, con una griglia all’altezza degli occhi, copre interamente il corpo della donna. Tecnicamente, assolve le funzioni del niqab e del khimar) passo ad analizzare la vicenda sia sotto l’aspetto legale sia sotto l’aspetto umano.
Sotto l’aspetto legale a parte qualche sporadica ed isolata ordinanza municipale, indossare un velo integrale in Italia non è reato.
Coloro che si oppongono alla libera circolazione di donne con il viso velato si appellano al vigente Codice penale e alla Legge 152/1975 (e successiva Legge 155/2005) relativa alle norme di Pubblica Sicurezza, il cui art. 5 recita: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino.”
Sulla interpretazione della clausola “senza giustificato motivo” si è già espresso il Consiglio di Stato, che ha ritenuto la matrice religiosa e/o culturale un giustificato motivo per poter circolare indossando un niqab, un burqa, o un altro tipo di velo islamico che ricopra il viso.”
La ratio legis di questa norma, diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è infatti quella di evitare che l’utilizzo di caschi o di altri mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento. Tuttavia, un divieto assoluto vi è solo in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino.
Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene “senza giustificato motivo”. Con riferimento al “velo che copre il volto”, si tratta di un utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. In questa sede al giudice non spetta dare giudizi di merito sull’utilizzo del velo, né verificare se si tratti di un simbolo culturale, religioso, o di altra natura, né compete estendere la verifica alla spontaneità, o meno, di tale utilizzo. Ciò che rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento.
Il citato articolo 5 della legge 152/1975 consente nel nostro ordinamento che una donna indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni, e dall’obbligo per tali persone di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine. Resta fermo che tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse incompatibili con il suddetto utilizzo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze.
Va precisato, però, che in sede giurisdizionale il Consiglio di Stato ha solo funzione di tutela nei confronti degli atti della Pubblica Amministrazione. In particolare il Consiglio di Stato è il Giudice di secondo grado della giustizia amministrativa, ovvero il Giudice d’appello avverso le decisioni dei TAR, e nella sentenza richiamata si annullò un ricorso avverso decisione del TAR sostanzialmente per motivi di merito procedurale e gerarchico.
Rimane stabilito peraltro (Sentenza TAR Friuli Venezia Giulia n° 645 – 16.10.06[4]) “che a prescindere dai singoli casi concreti in cui ogni agente di pubblica sicurezza è tenuto a valutare caso per caso se la norma di legge possa o meno ritenersi rispettata, un generale divieto di circolare in pubblico indossando tali tipi di coperture può derivare solo da una norma di legge che lo specifichi (allo stato attuale non esistente), il che è tra l’altro in linea con le implicazioni politiche di una simile decisione.”.
Sotto l’aspetto umano la vicenda mi ha ricordato un film interpretato dal grande e compianto Nino Manfredi dal titolo “Pane e Cioccolata” di Franco Brusati.
Manfredi interpreta Giovanni “Nino” Garofoli cameriere ciociaro che dopo tre anni di affannosa ricerca di un lavoro dignitoso in Svizzera, sembra prospettarsi un esito favorevole. La speranza, però, è resa vana da una foto consegnata alla polizia che lo ritrae mentre orina all’aperto sotto gli occhi di una donna. Ad arrendersi Nino non ci pensa e, divenuto clandestino, è ospite, per qualche giorno di Elena, una donna greca, politicamente dissidente nei confronti del regime dei colonnelli al potere nel suo paese; in seguito si affida a un miliardario italiano riparato in Svizzera per reati fiscali ed esportazione illecita di capitali, al quale consegna perfino i suoi scarsi e sudati risparmi. L’industriale lo assume, ma giunto ormai alla bancarotta si toglie la vita lasciando Nino senza lavoro, denaro e permesso di soggiorno.
A questo punto Nino prova a stabilirsi presso altri clandestini che vivono in un pollaio assieme alle stesse galline che devono uccidere e spennare per sopravvivere. Scioccato dall’esistenza degradata a cui sono relegati quei suoi connazionali, decide per una sorta di mimesi etnica, tingendosi i capelli di biondo e cercando, vanamente, di mescolarsi agli svizzeri. Ma, capitato in un bar in cui un televisore sta trasmettendo una partita dell’Italia, continua a recitare la parte del biondo svizzero fino a quando la squadra italiana non segna un gol, un evento di fronte al quale Nino non riesce più a trattenere la sua irrefrenabile gioia liberatoria.
Fallito anche questo tentativo di integrazione, decide di tornare a casa e parte in treno, ma il tanto agognato permesso di soggiorno per altri sei mesi se lo vede consegnare in stazione dall’amica greca che l’ha avuto grazie al marito, svizzero e agente di polizia. Nino aveva già deciso di chiudere l’esperienza svizzera, ma disgustato da alcuni connazionali, pure loro sulla via del rimpatrio, intenti a intonare, in funzione consolatoria, Simmo ‘e Napule paisà, blocca il treno in galleria sotto il Passo del San Gottardo, scende e, con in mano la valigia, torna indietro per riprendere la sua battaglia.
La mia speranza è che Sara non attui la mimesi etnica che la nostra società gli impone per potere lavorare e che venga apprezzata come donna lavoratrice e non discriminata perché indossa il velo.
Infine chiudo con una battuta del sopracitato film, che dovrebbe essere da monito per tutti noi Italiani, del Sud in particolare, che molto spesso ci dimentichiamo che i nostri nonni sono stati emigranti.
« -Commissario: È Italiano?
-Nino Garofolo: Beh… nessuno è perfetto signor commissario. »
(Nino Manfredi nei panni di Nino Garofoli, interrogato dalla polizia svizzera)
Paolo F. Cuzzola
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