(di Jessica Sabatelli) La trattativa tra la Repubblica Italiana e l’associazione mafiosa siciliana conosciuta come “Cosa nostra” fa riferimento alla presunta negoziazione posta in essere a seguito degli attentati dinamitardi del 1992 e del 1993. Le condizioni degli accordi sono tutt’ora al vaglio della Magistratura Ordinaria che ipotizza la cessione degli attentati con una più mite attenuazione delle misure detentive; tuttavia, le ipotesi investigative sembrano suggerire accordi più penetranti, come l’inserimento di componenti dei clan mafiosi dentro le istituzioni e una serie di appalti pilotati per garantire introiti sicuri e continui nelle casse della Mafia.
Andiamo con ordine.
Tra il Settembre e il Dicembre 1991, durante alcune riunioni della Commissione Regionale e Provinciale di Cosa Nostra, presieduta da Salvatore Riina, venne deciso di dare inizio a una serie di azioni terroristiche, in quanto lo Stato aveva posto agli arresti ben 475 persone, indagandole per associazione mafiosa, in quanto appartenenti al gruppo armato “Falange Armata”; inoltre, si decise di colpire a morte i giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il parlamentare siciliano Salvo Lima e il suo assistente Sebastiano Purpura, oltre al Ministro per gli interventi straordinari del Mezzogiorno Calogero Mannino, il Ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, il Ministro delle poste e telecomunicazioni Carlo Vizzini e il Ministro della Difesa Salvo Andò. In particolare, tra i quattro “crasti” (in siciliano vuol dire “bastardi”) c’era proprio Claudio Martelli, reo di aver usato i voti dei mafiosi nel 1987 per diventare politico (almeno così dicevano i pentiti Angelo Siino, Nino Giuffré e Gaspare Spatuzza), per poi opporsi al potere convocando Giovanni Falcone in qualità di Direttore Generale degli Affari Penali al Ministero di Grazia e Giustizia.
Il 30 gennaio 1992, la Cassazione confermò la sentenza del Maxiprocesso che condannava Riina e molti altri boss all’ergastolo; in seguito alla sentenza, quindi, i capi della “Commissione” mafiosa regionale e provinciale decisero di avviare la stagione stragista già progettata nelle riunioni dello scorso anno. Cominciarono a Marzo del 1992 trucidando l’onorevole Salvo Lima, perché non era più in grado di garantire gli interessi delle cosche mafiose nel Governo ed era il delfino di Giulio Andreotti, vero bersaglio.
Nei mesi successivi, l’onorevole Calogero Mannino, spaventato per aver ricevuto una corona mortuaria di fiori, si mise in contatto con Antonio Subranni, all’epoca comandante del ROS, attraverso il Maresciallo Guazzelli, ucciso nell’Aprile 1992 per lanciare un segnale forte a Mannino stesso.
Nel maggio 1992 si decise di alzare il tiro, uccidendo il 23 maggio il giudice antimafia Giovanni Falcone, con la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, nella ormai nota “Strage di Capaci”.
Il Consiglio dei Ministri, decise di non farsi intimidire, e introdusse con il decreto-legge Scotti-Martelli, l’art. 41-bis, cioè il carcere duro riservato ai detenuti di mafia.
Da questo momento, comincia una ballata di incontri tra esponenti della politica e della magistratura, per organizzare un piano di difesa contro gli assalti dinamitardi; contemporaneamente, con l’intercessione di Vito Ciancimino, cominciarono una serie di fitte comunicazioni con esponenti mafiosi per far cessare il fuoco da parte della Falange Armata.
(continua…)
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