(di Jessica Sabatelli) Terremoti in America, in Giappone, in Italia: le faglie sono quelle fratture della Terra che non si arrestano mai.
Alla luce del recente sciame sismico che ha colpito gli abitanti dei piccoli borghi del centro Italia, i sismologi sono arrivati alla conclusione che l’Appennino si sta espandendo dall’Adriatico al Tirreno.
Gli eventi sismici del Centro Italia sono cominciati con una serie di episodi sismici iniziati ad agosto con epicentri tra la valle del Tronto e i Monti Sibillini. La prima forte scossa è avvenuta il 24 agosto 2016 con magnitudo di 6,0, altri due forti eventi sismici si sono succeduti il 26 ottobre 2016 con epicentri al confine umbro-marchigiano e il 30 ottobre 2016, con amara sorpresa di tutti, si è registrata la scossa più forte degli ultimi 36 anni in Italia, con magnitudo 6.5.
Il suolo è crollato, arrivando a toccare i 70 centimetri di profondità e provocando squarci che hanno modificato la fisionomia di strade e viali. La popolazione locale ha sperimentato scosse ripetute e di intensità sempre maggiore da quella precedente, che hanno distrutto case, centri storici e raso al suolo interi edifici.
La protezione civile ha finora dichiarato un numero di vittime pari a 298 persone; coloro i quali sono stati estratti vivi dalle macerie sono quasi la metà (238) e i feriti ricoverati in ospedale non arrivano a 400.
Gli esperti sismologi dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV) e del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) dichiarano che la causa di questi sismi sia imputabile ad un intricato dedalo di faglie, che si attivano in una specie di effetto domino.
Come sappiamo, la crosta terrestre è formata da moltissime placche, che creano giganteschi reticoli che galleggiano come zollette di zucchero sul magma terrestre sottostante. Moltissime sono le manovre che possono compiere: avvolte si allontanano, altre si avvicinano, scatenando terremoti e formando catene montuose. La catena appenninica rappresenta proprio uno degli scenari sopracitati, nel quale si possono verificare eruzioni e terremoti.
Diverse sono le zone del pianeta che presentano analoghe condizioni e di conseguenza anche analoghi rischi: parliamo, per esempio, della famosa faglia di Sant’Andrea, che si estende per 1300 chilometri in California, tra la placca Nordamericana e quella Pacifica. Questa particolare zona potrebbe essere colpita da terremoti di magnitudo 6.7 o anche superiori.
Un’altra zona ad alto rischio è la Cintura di fuoco del Pacifico, che si estende 40mila chilometri lungo l’Oceano Pacifico, attraversando quasi tutte le coste toccate da questo oceano: della Nuova Zelanda, del Sud America, del Giappone, degli Stati Uniti e del Canada.
Gran parte del Giappone sorge proprio sopra questa cintura e il popolo giapponese ha, infatti, imparato a convivere con una costante presenza di terremoti nel paese, che si palesano con un’importante frequenza. I giapponesi hanno anche sviluppato tecnologie antisismiche eccezionali, che ammortizzano i danni provocati dai terremoti e proteggono gran parte della popolazione.
In conclusione, non possiamo fare opposizione alla forza della natura e della geografia della Terra, ma possiamo adottare delle misure preventive che ahimè sono quasi del tutto assenti nelle infrastrutture italiane: per sperare in un mondo che possa ridurre al minimo i danni provocati dai terremoti è necessario pensare seriamente a una “rivoluzione infrastrutturale”, che possa tutelare tutti.
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