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Di: Daniela D’Angelo

Un infermiere e il suo ingombrante e oscuro passato, la sua giovane moglie, il traffico illegale di organi ad opera dell’ospedale in cui lavora, la droga, il licenziamento. La depressione, la rabbia, la frustrazione. Le ricriminazioni. Le colpe vere o presunte. Nella vita di Ivan, proprio quando sta per arrivare un bambino, qualcosa inizia ad andare per il verso storto. A un certo punto si allargano delle maglie, e la rete che lo aveva sostenuto fino ad ora comincia a cedere. Ivan in preda alla paranoia finisce con il confondere il piano della realtà con quello delle proprie allucinazioni. Dal delirio psicotico alle azioni sconnesse e irreparabili il passo è breve, in una spirale di violenza persecutoria di cui è contemporaneamente ora vittima ora carnefice. Giuseppe Casa, abile come sempre nel tenere il lettore incollato alla pagina, guarda dentro la zona più indicibile del nostro essere, e della nosta società, con un romanzo (Speed, Castelvecchi, euro 20) che racconta da vicino l’orrore in cui ognuno di noi potrebbe cadere (o in cui è caduto già). Nessuno escluso.

DDA: Spesso scegli la coppia, nei tuoi romanzi, per mettere in scena le aberrazioni della società contemporanea, l’illogicità delle azioni e delle relazioni. Dove esplode la rabbia, la violenza, la follia. Se c’è una via d’uscita, qual è?

GC: La coppia, per me, è l’ambito di indagine migliore per cercare di conoscere noi stessi e la realtà sfuggente, dato che, personalmente, la via ascetica mi è preclusa. Non avrebbe scritto nulla Kafka senza le sue fidanzate. Poi, non credo sia compito della letteratura trovare delle vie d’uscita. In Speed Ivan si ritrova sempre davanti a delle porte in cui c’è una scritta che recita No Exit. Naturalmente anche questo ricorda Kafka, che sicuramente rimane per me una fonte d’ispirazione. Josef K, il protagonista de Il Castello, si ritrova sempre davanti a una porta. La porta è un tema romanzesco. La porta è anche uno specchio che Ivan non vuole aprire per non scoprire il mistero che c’è dentro. Non sempre varcare una porta è garanzia di accoglienza. La porta chiusa significa possibilità di aprire, il divieto ti dice il contrario. Ci si trova di fronte a due soluzione opposte. Un’aporia. É la vita con tutte le sue contraddizioni. Ivan sceglie di non aprirla. Rispetta il divieto, più o meno come fa Josef K., che scopre, più tardi, che la porta era destinata a lui, solo a lui, ed era aperta. La tragedia ha capovolto il suo segno. É una parabola. La porta di Ivan invece è uno specchio dove incontra il suo doppio. L’Io si moltiplica. L’Io moltiplicato non è mai buono. É già troppo se ne abbiamo uno. Così capiamo che il mistero non consiste tanto nell’aprire la porta, ma nel saperla richiudere. Dovremmo saper richiudere questa porta per poter, noi, sperare di aprirla un giorno, come un’estrema possibilità.

DDA: Chi è Ivan, quale ferita si porta dentro? È un uomo perduto o un uomo che cerca di salvarsi?

GC: Ivan è una vittima ma anche un carnefice, filtrato dal mio cervello. A me piace, e spero finirà col piacere ai lettori. Ivan sembra vivere in un sogno, e come in un sogno sembra agire, mentre è strumento, spesso, docile e inerme di forze incontrollabili dentro e fuori di lui. Ha una moglie, di cui è innamorato, e sta per arrivare un bebè, dovrebbe essere felice, ma tutto comincia ad andare a rotoli. Ivan sembra uno cacciato dal paradiso in cerca di salvezza, come tutti. Non so se trova questa salvezza, non sta a me dirlo. La salvezza e la dannazione, in generale, sono concetti discutibili oggi.

DDA: All’orrore si accompagna spesso anche l’ironia, a volte persino la malinconia. Come fai a muovere contemporaneamente corde così differenti?

GC: I film horror sono stati motivo di grande ispirazione per me, pur senza confrontarmi col genere vero e proprio. Sono cresciuto con i fumetti horror. Fin da ragazzo leggevo Oltretomba. Zora la vampira. Il Marchese De Sade, che era un misto di horror e sesso, poi è arrivato Stephen King e i film horror. Ancora oggi, vedo in media due film horror a settimana, e Stephen King, rimane per me un maestro. In Speed è citato a chiare lettere, e a un certo punto appare la scritta Pennywise, che è anche il nome di una rock band degli anni Ottanta, che amavo ascoltare. Secondo me la letteratura di genere e i film di serie B si sono fatti carico, in questi ultimi anni, del tema del male. Cercano di dissoccultare dalle pieghe delle riflessione “alta”: filosofia, teologia, letteratura, il tema del male e di portarlo brutalmente in faccia al pubblico o al lettore. Il tema del male è legato alle più alte manifestazioni dello spirito. Thomas Mann, ha detto da qualche parte, “l’amore non è niente, se non passa attraverso un’avventura del male”. E Leopardi ha scritto: “Tutto è male”. Anche la lotta contro l’ingiustizia, a volte, può diventare male. Tuttavia, nella mia scrittura cerco sempre di tenere sotto controllo il materiale morale. Cerco di anticipare qualsiasi obiezione morale che possa essermi sollevata. É un’esperienza che ho imparato sul campo. Molti editori in passato mi chiedevano al telefono, prima di mandarmi il contratto. “Qual è la motivazione di tanto male? Perché questo personaggio fa quello che fa?”. Dovevo essere sempre pronto a rispondere a una domanda del genere. E la risposta era: non lo so.

DDA: Veronica dal Vivo è stato un grande successo. Poi sono venuti altri libri… Cosa è cambiato dal tuo esordio ad oggi? Cosa muove la tua ricerca di scrittore?

GC: Sono fondamentalmente una persona pigra e la scrittura è una cosa che si adatta bene alla mia pigrizia. É un modo per essere inattivi. Ma c’è anche un atteggiamento ludico nella scrittura, che mi piace, da qui l’ironia, forse, che qualcuno ha trovato nei miei libri. Veronica Dal Vivo, che risale al 1998, è un libro di racconti brevi pubblicato da Transeuropa, quando era in mano a Massimo Canalini. All’epoca, il libro, era stato considerato una parodia all’horror-pulp, di moda in quei tempi. Ma io non facevo nessuna parodia, mi limitavo a scrivere racconti prendendo spunto dai fatti di cronaca, dai libri, dalla poesia, dai comici in tv, dalla realtà, e lì ci sono tutti i temi, tutta l’ambientazione sociale e tutti i personaggi, che poi ho sviluppato nei miei romanzi successivi, con toni e stili diversi. Mi sono sempre sentito un po’ estraneo alla realtà sociale. Come uno che non vuole crescere, uno con lo stato mentale di un adolescente. Forse la mia ricerca “muove” da questa cosa.

DDA: Ultima domanda: prossimo libro?

GC: Il mio prossimo libro, sempre che me lo pubblichino, parlerà di incesto. Sono molto interessato all’incesto. In senso metaforico, ovviamente. Il protagonista, dopo una serie di vicissitudini, diventa una sorta di anchorman del web, un regista produttore di video online…

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