Durante l’esilio definitivo a Sant’Elena, ripensando alla straordinaria parabola della sua vita, Napoleone sembra guardare alla sconfitta di Waterloo come a una tappa necessaria del suo percorso verso la gloria: per entrare nella leggenda era indispensabile abbandonare il ritiro dell’isola d’Elba, quel 26 febbraio 1815, e vivere le giornate esaltanti del rientro a Parigi, per giungere poi il 18 giugno dello stesso anno alla grande sconfitta dell’esercito francese sotto il suo supremo comando. Sono state fornite le più diverse spiegazioni militari per dare ragione dell’esito della campagna del Belgio, basata su di un piano geniale e trasformatasi in un rovescio di proporzioni immense, ma nessuna delle interpretazioni tecniche appare del tutto convincente. Sergio Valzania, storico e biografo, ripercorre quei «cento giorni» cercando di illustrare il punto di vista di Napoleone, interrogandosi in particolare sul suo stato d’animo, sulle motivazioni profonde che guidarono il suo genio verso la realizzazione di quella che oggi viene portata a esempio di sconfitta totale, ma che lui stesso nel suo memoriale continuava a vedere come parte integrante e necessaria del cammino destinato a farlo entrare nel pantheon dei grandi condottieri. Al Napoleone elbano, vittima del tradimento dei marescialli, mancava il finale tragico, quello che Vincenzo Bellini sosteneva essere necessario nella costruzione narrativa del melodramma. La conclusione dell’avventura napoleonica non poteva ridursi a un viaggio in carrozza, durante il quale l’imperatore è costretto a indossare l’uniforme del nemico, e al ritiro in una sorta di tenuta di campagna dove gioca a carte con gli amici e i parenti. Per entrare nel mito occorrevano un ritorno a casa degno di quello di Ulisse e una battaglia omerica: un gesto finale, grandioso e decisivo, che chiudesse la carriera di Napoleone alla testa dell’esercito francese, consacrandolo sconfitto non dal nemico ma dal destino. Occorreva un piano di campagna che portasse con sicurezza alla vittoria, certificando il suo genio militare, e un gruppo di esecutori incapaci, pasticcioni e senza determinazione, tanto inetti da farlo fallire.
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