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Avere pietà di qualcosa o qualcuno è un atto di misericordia, una forzatura dello status quo che induce ognuno di noi al cospetto dell’accettazione di un errore, di una colpa o persino di un crimine. Invocare la pietà è un gesto di estremo bisogno, l’ultimo passo prima del burrone della pena.

Entro questi confini tanto pervasivi si muove come un falco il cinema di Kim Ki Duk, fondatore di una nouvelle vague orientale che esplora l’amore con chirurgica precisione e appassionata dedizione. Non stupisce che un cinema dagli accenti sentimentali tanto apocalittici si esprima per immagini icastiche come quelle dei suoi titoli (L’isola, L’arco, Soffio) e attraverso figure di grande incisività. Come Ferro3 – La casa vuota era annunciato da una sequela di corpi avvinghiati alla ricerca di una fuga e di un incontro, così Pietà, titolo truce e ammirevole di Kim Ki Duk, rifà il verso all’omonimo capolavoro michelangiolesco: là era la Madonna a sostenere il Figlio Innocente dall’ingiustizia umana, qui invece è una madre quasi misteriosa ad incolparsi dei crimini di un figlio che non ha mai conosciuto l’amore. Assunto da uno strozzino per ottenere il pagamento dai suoi debitori, Kang-do non ama perdonare. Non c’è tortura che non infligga al malcapitato insolvente e si aggira seminando orrore e morte. Un giorno si presenta alla sua porta una donna che dice di essere sua madre e che si assume la colpa di ogni suo crimine in nome di quell’amore che sa di avergli fatto mancare, costringendo il figlio abbandonato ad una vita d’inedia affettiva e di deriva sociale. Dopo averla sottoposta a prove indicibili pur di accertarsi che dica la verità, Kang-do l’introduce nella sua vita, ma la paura di perderla di nuovo, per contrappasso lo mette nella stessa posizione di scacco in cui ha sempre tenuto le sue vittime bramose di vendetta. Ogni redenzione ha il suo costo: può essere una questione di denaro o di vita, così come di morte. E’ ovvio come per Kim Ki Duk il pagamento è tanto più alto quanto più consistente è il cambiamento pregato. Basta vedere i due protagonisti (uno alto e massiccio contrapposto ad una donna minuta, quasi invisibile) per capacitarsi di come Pietà sia un film giocato sulle sproporzioni della vita  contro una qualsivoglia giustizia morale. Eppure il regista si muove tra questi destini incrociati come agili note di un requiem di morte e raggiunge un risultato  straniante ed ironico, come le risate riversate su un situazione troppo spiacevole per non prenderla con filosofia. Annunciato sin dalle prime immagini come “Il 18° film di Kim Ki Duk”, Pietà strizza l’occhio all’Elettra di Sofocle e va ben oltre qualunque idea di maturità per farsi cinema di grande estro e contenuto. Sorretto dalla mostruosa prova d’attrice di Jo Min-soo, il regista ci regala un ritratto intimo e personalissimo del più misterioso dei rapporti: quello tra amore e odio.

CLAUDIO SALVATI

 

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