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Papa Francesco visita una favela in Brasile durante la Giornata mondiale della gioventù 2013 Tânia Rêgo/ABr – Agência Brasil Pope Francis at Varginha Licenza: CC BY 3.0 BR

di Salvatore Primiceri – Lunedì 21 aprile 2025, giorno di Pasquetta, si è spento Papa Francesco. La notizia ha scosso non solo la Chiesa cattolica, ma l’intera comunità globale, come quando viene a mancare una voce che, pur parlando con accento evangelico, sapeva farsi intendere da ogni latitudine dell’anima umana. Se il papato di Jorge Mario Bergoglio può essere compreso in filigrana storica, è perché ha attraversato e risposto alle più profonde inquietudini del nostro tempo, riuscendo a offrire una parola che non voleva essere dottrina imposta, ma invito etico universale, diretto a tutti coloro che abitano questa terra comune.

Francesco ha parlato come pochi altri pontefici prima di lui alla coscienza dell’uomo contemporaneo, rivolgendosi tanto ai fedeli quanto agli agnostici, agli esclusi quanto ai potenti, ai popoli quanto ai singoli. Lo ha fatto senza mai indossare la corazza del giudizio, ma con il gesto disarmato del pastore che si inginocchia a lavare i piedi. Nel suo sguardo, la Chiesa non è mai stata fortezza ma ospedale da campo, non cittadella ma tenda aperta. E proprio questa apertura – profonda, spesso scomoda, radicalmente evangelica – è stata la cifra del suo universalismo etico: una chiamata a riconoscere i valori che appartengono a tutti, che nessuna fede né cultura può arrogarsi, ma che ciascuna può custodire con responsabilità.

In questo, si può intravedere anche una sottile ma significativa continuità con il suo predecessore, Benedetto XVI, il quale – pur con un linguaggio più teoretico e accademico – aveva messo in guardia contro il relativismo morale, definendolo “la più grande minaccia del nostro tempo”. Entrambi, in modi diversi, hanno cercato di riaffermare che l’etica non può essere abbandonata all’arbitrio del gusto personale o del consenso momentaneo, ma deve poggiare su una visione dell’uomo e della sua dignità che sia condivisibile e riconoscibile da tutti. Se Benedetto XVI difendeva la necessità di una verità oggettiva per fondare il bene, Francesco ha preferito percorrere la via dell’incontro e della compassione, mostrando che non si tratta di contrapposizione, ma di due linguaggi per una stessa preoccupazione: quella di custodire l’umano.

Al centro di questo ethos universale ha posto il valore della pace, non come concetto astratto, ma come esistenza concreta minacciata dalle guerre dimenticate e dalle logiche del dominio. Quante volte, con voce rotta dall’indignazione e dal dolore, ha denunciato le stragi silenziose che non trovano spazio nei titoli dei telegiornali. E quante volte ha levato la sua voce, senza ambiguità, contro il fragore delle armi in Ucraina, a Gaza, ovunque il sangue innocente gridi vendetta alla coscienza del mondo. Ha rifiutato la retorica del conflitto giusto, mostrando come ogni bomba gettata su civili sia una sconfitta dell’umano prima ancora che della politica.

A fianco della pace, Francesco ha difeso instancabilmente la dignità dei migranti, dei poveri, dei popoli invisibili, inascoltati, scartati. L’etica che ha incarnato non si è mai fermata alla proclamazione dei diritti, ma ha toccato il dovere della cura: “Chi ha pianto?” domandò a Lampedusa, in uno dei momenti più alti del suo pontificato. La risposta, ancora oggi, pesa come una domanda collettiva irrisolta.

Ha saputo unire il linguaggio della fede con quello della responsabilità globale, come quando nella Laudato si’ ha parlato al mondo della casa comune da custodire, ricordando che ogni crisi ambientale è anche una crisi morale. E ha tracciato con Fratelli tutti un orizzonte capace di includere la fraternità come necessità storica, non più soltanto spirituale.

Con la sua morte, ci resta una Chiesa che ha respirato con più forza, aprendosi al dialogo interreligioso, a una nuova teologia della misericordia, a un servizio vissuto come testimonianza e non come potere. Ma ci resta anche, inevitabilmente, una preoccupazione: quella per ciò che verrà. L’elezione del nuovo Papa si annuncia come un passaggio cruciale. Chi raccoglierà il testimone di Bergoglio dovrà affrontare un mondo frammentato, una fede attraversata da tensioni, una società disillusa, ma anche una speranza seminata nel solco che Francesco ha tracciato con coraggio.

Sarà una sfida immane. Perché eredita non solo un pontificato, ma un messaggio da non tradire: che è ancora possibile parlare al cuore dell’uomo senza urlare, ancora possibile farsi voce dei senza voce, ancora possibile sognare una civiltà della tenerezza, senza cedere al cinismo. Francesco ci lascia il compito più difficile: credere che un’etica universale non è un’utopia, ma un’urgenza. Tocca a noi, ora, non dimenticarlo.

Salvatore Primiceri

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