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di Giovanni Reho – Emerge una tendenza sempre più diffusa nei giovani. Interrogare l’intelligenza artificiale quando sono al bivio di decisioni difficili che riguardano la loro quotidianità o il loro futuro.

La difficoltà in una decisione scolastica, universitaria, lavorativa, anche solo personale o relazionale viene affidata agli “oracoli algoritmici” in grado di predire e suggerire la decisione che appare “più” giusta.

All’oracolo artificiale racconto la mia storia, confido le mie insicurezze e le mie perplessità, le mie paure e le mie preoccupazioni, svelo i miei desideri e le mie attese.

Il sapientone invisibile divora tutte le mie informazioni, scansiona lo spettro del mio vissuto passato e presente e dopo pochi secondi di elaborazione meccanica compone algoritmicamente la decisione “più” giusta per il mio futuro, che giunge velocemente, come ricalcata da una mano fantasma, sullo schermo del mio cellulare.

Una “stranezza” che avrebbe indotto i bambini di un tempo a scassare in mille pezzi l’oggetto misterioso pur di esaminarlo dal di dentro e accertare con i propri occhi e la propria ragione da cosa e da chi fosse provocata tanto incredibile magia.

Oggi non ci sono più troppi interrogativi. In molti casi sono anche una inutile fastidiosa zavorra.

Dovremmo essere entusiasti di questa nuove intelligenti dimensioni della modernità o dovremmo invece interrogarci in modo preoccupato sul futuro dei nostri ragazzi e sul destino che li attende?

La società moderna ci racconta che il progresso porta sempre nuove visioni e nuove prospettive, buone o cattive non importa, come tali da accettare come inesorabili.

L’inarrestabilità del progresso viene spesso associata con la rinuncia ad un giudizio di valore, ad un giudizio etico, oppure, per non essere accusati di moralismo (peggio ancora se ritenuto addirittura “retrogrado”) ad un giudizio secondo coscienza. Questo il vero nodo del problema: l’incoscienza, ormai generalizzata e diffusa, senza distinzione di età, coincide in questo caso nell’affidarsi in modo incontrollato e incondizionato ai rischi di un futuro inarrestabile, in quanto tale da subire o accettare in modo qualunquista e distratto.

“Decìdere” richiede un processo logico pensante, prima di risolvere un problema o pronunciare un giudizio; comporta la scelta tra alternative o possibilità diverse; oppure stabilire in modo definitivo una direzione di valore determinante nel complicato percorso di valutazione di ogni circostanza favorevole o contraria; ovvero, ancora, indursi a fare o non fare una cosa con risolutezza cosciente, accettando il rischio che ogni decisione umana impone alla responsabilità di ciascuno.

Ci sono molte ragioni se i nostri giovani (e la loro profonda solitudine) cadono nella trappola dei robot “intelligenti”. È un discorso molto complesso che richiede ben altro approfondimento.

Abbiamo il compito di insegnare loro sino allo sfinimento che non esiste la decisione più giusta; esiste solo la decisione che mi appartiene qui e ora, possibilmente in compagnia di chi mi vuole bene oppure nella solitudine della mia responsabilità.

La giustezza di una decisione è intrinsecamente (anzi armoniosamente) coniugata con la sua imperfezione, ciò con la serena o combattuta risoluzione personale di intraprendere una via o un cammino, senza certezze e a volte con molte ansie, ma sempre con lo sguardo aperto e appassionato di chi desidera imparare da ogni istante e da ogni occasione imprevedibile.

La sicurezza della strada insicura; è solo questa la strada più giusta, più avvincente e autentica e, soprattutto, più umana.

Fosse davvero intelligente, la cd. “intelligenza artificiale”, non si sostituirebbe alle decisioni dei nostri ragazzi. Con anelito umano o amorevole, che ad essa manca del tutto, aprirebbe loro le ali e gli occhi per lasciarli andare al loro futuro con uno sguardo attento e responsabile, come solo chi ci ha amato nella vita ha fatto e continua a fare.

Stabilire o decidere il futuro altrui è tutt’altro che una sana decisione, figurarsi quando affidata ad un robot. Presunzione mostruosamente disumana, figlia di un progressismo narcisistico che ci vuole più grandi, più belli e più forti di un Dio. Bisogna essere più attenti.

Dovremo riacquistare e insegnare sempre con migliore saggezza ai nostri ragazzi la strada del tempo da percorrere con pazienza, la strada dello spazio da riempire nei suoi vuoti e da godere nei suoi momenti pieni di gioia, la strada delle emozioni anche quelle più buie, per sentirne il peso ma anche il profondo insostituibile insegnamento.

Bisogna ritornare a percuotere e rompere in mille pezzi ogni scatola oscura per interrogarci su come è realmente fatta, su come realmente funziona e, soprattutto, questo sì è il passaggio più impervio, su chi l’ha costruita e perché la fa funzionare in questo stranissimo modo.

Giovanni Reho

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