di Giovanni Reho e Marco D’Andrea – Premessa – Il c.d. repêchage rappresenta nel nostro ordinamento un diritto per il lavoratore e un obbligo per il datore di lavoro correlato strettamente al licenziamento per giustificato motivo oggettivo ovvero quello determinato da fatti inerenti “all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3 legge 604/66).
Si tratta di una regola di matrice giurisprudenziale che si riflette nell’obbligo del datore di lavoro di verificare, prima del licenziamento, la possibilità di salvaguardare il posto di lavoro del dipendente con il reimpiego all’interno della propria organizzazione produttiva in altre mansioni.
Come noto, nell’esercizio della propria attività di impresa e nel rispetto della libertà di iniziativa economica privata tutelata a livello costituzionale ai sensi dell’art. 41 della Costituzione, il datore di lavoro può decidere di sopprimere una posizione lavorativa per esigenze economiche e/o di riorganizzazione aziendale, ma non può trascurare di accertarsi della sussistenza di alcuni requisiti e della possibilità concreta di dimostrarli in giudizio nel caso di impugnazione del licenziamento.
In buona sostanza, perché un licenziamento possa essere considerato legittimo e quindi sfuggire ad un ordine di reintegrazione e/o di risarcimento del danno (a seconda del tipo di tutela che si applica), il datore di lavoro, è tenuto a dimostrare in giudizio:
(a) l’effettività e non pretestuosità delle ragioni addotte a fondamento del recesso;
(b) l’esistenza del nesso eziologico tra le predette ragioni e il licenziamento intimato;
(c) l’esatta individuazione del lavoratore in esubero (in caso, ad esempio, di riduzione di personale) attraverso l’applicazione analogica dei criteri previsti per i licenziamenti collettivi (esigenze tecnico-produttive ed organizzative, carichi di famiglia e dell’anzianità di servizio);
(d) l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in azienda, in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte.
Con riferimento a tale ultimo profilo (obbligo di repêchage), si osserva che in ragione di quanto previsto dall’art. 2103 c.c. così come sostituito dall’art. 3 del D.lgs. 81/2015, il datore di lavoro, secondo quanto previsto dalla giurisprudenza più recente, ha il compito di dimostrare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore, che intende licenziare, in una posizione vacante al momento del recesso, con riferimento, si badi bene, non solo a mansioni appartenenti allo stesso livello di inquadramento rispetto a quelle, da ultimo, espletate, ma anche appartenenti ad un livello inferiore.
La ratio è quella di escludere definitivamente che il datore di lavoro non avesse altra soluzione che quella del licenziamento.
È necessario però precisare che, al fine di evitare un onere eccessivo in capo al datore di lavoro la giurisprudenza ha precisato che non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell’organigramma aziendale, ma solo quelle compatibili con le competenze professionali del lavoratore o quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza.
Da ultimo si segnala che con l’ordinanza n. 1364 del 20.01.2025, la Suprema Corte ha stabilito il principio secondo cui in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro per assolvere all’obbligo di repêchage deve solo dimostrare l’inesistenza di posizioni vacanti che siano compatibili con le mansioni del lavoratore, senza obbligo di estendere la ricerca ad altre funzioni non strettamente correlate. La Suprema Corte ha stabilito che il Giudice non può imporre al datore di lavoro il mantenimento di una posizione anche inferiore non compatibile, perché si andrebbe ad invadere eccessivamente la discrezionalità gestionale del datore di lavoro.
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Onere probatorio e di allegazione.
Al di là dei confini sostanziali del repêchage, si ritiene utile spendere qualche osservazione sulla distribuzione degli oneri di allegazione e di prova con riferimento all’impossibilità di ricollocare il lavoratore nella specifica compagine aziendale.
L’onere probatorio inerente all’obbligo di repêchage, concernendo un fatto negativo, può essere assolto dal datore di lavoro mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi, quali, ad esempio, il fatto che egli abbia offerto al lavoratore poi licenziato di ricoprire posizioni vacanti in azienda e che quest’ultimo le abbia immotivatamente rifiutate, oppure la circostanza che i posti di lavoro riguardanti mansioni, anche inferiori, ma comunque attinenti alla professionalità acquisita del dipendente licenziato fossero, al tempo del licenziamento, stabilmente occupati da altri lavoratori e/o il fatto che, dopo il licenziamento e per un congruo periodo, non sia stata effettuata alcuna assunzione in relazione ad essi.
Per attenuare le conseguenze di un’applicazione rigida dei principi generali in materia di onere della prova, e quindi per rendere al datore di lavoro materialmente possibile l’assolvimento di tale onere probatorio, la giurisprudenza era solita ritenere che tale prova avrebbe dovuto essere fornita dal datore di lavoro nei limiti delle allegazioni offerte in giudizio dal lavoratore.
Quest’ultimo, in sostanza, avrebbe dovuto collaborare nell’accertamento del possibile repêchage, allegando ed individuando le posizioni lavorative alternative (anche per mansioni inferiori) in cui poteva essere utilmente ricollocato.
Una volta individuate tali posizioni lavorative, nel caso in cui il datore di lavoro non fosse riuscito a provare in giudizio l’impossibilità di impiegarvi proficuamente il lavoratore, allora sarebbe stato ritenuto inadempiente all’obbligo di repêchage, con conseguente illegittimità del licenziamento.
Tra le tante, si richiama la Cassazione civile, sez. lav., 12/08/2016, n. 17091, secondo cui “in caso di licenziamento per giustificato motivo obiettivo, la prova della impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni nell’ambito dell’organizzazione aziendale non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento del possibile repêchage con mansioni diverse e anche inferiori a quelle originariamente svolte, mediante l’allegazione della esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato; a tale allegazione corrisponde l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del lavoratore nei posti predetti”.
A tale orientamento si contrappone un diverso indirizzo, allo stato prevalente, secondo cui “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’onere della prova del c.d. repêchage grava esclusivamente sul datore di lavoro, senza che sul lavoratore incomba alcun onere, neppure di allegazione” (Cass. sez. lavoro n. 18904-2024).
Esigere che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all’interno dell’azienda significa, se non invertire sostanzialmente l’onere della prova (che – invece – la L. n. 604 del 1966, art. 5, pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio, nel senso di addossare il primo ad una delle parti in lite e il secondo all’altra, una scissione che non si rinviene in nessun altro caso nella giurisprudenza di legittimità.
Invece, alla luce dei principi di diritto processuale, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione.
In altre parole, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di ‘repêchage’ del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità̀ del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri” (Cass. sez. lav. n. 5592/2016; Cass. sez. lav. n. 12101/16; Cass. sez. lav. n. 160/2017; Cass. sez. lav. n. 3475/2020).
Pertanto, il datore di lavoro deve dimostrare che non è stato possibile ricollocare il lavoratore licenziato ad altre mansioni – rientranti nello stesso livello di inquadramento o anche in un livello inferiore – prendendo in considerazione tutte le possibili posizioni lavorative esistenti in azienda e compatibili con il suo bagaglio professionale.
Seppur una tale impostazione possa apparire gravosa per il datore di lavoro è, senza dubbio, allo stato, quella prevalente secondo la più recente giurisprudenza di legittimità.
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Le conseguenze del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in caso di violazione dell’obbligo repêchage.
Le conseguenze sanzionatorie in punto violazione obbligo di repêchage sono, allo stato, diverse a seconda che il rapporto di lavoro ricada sotto la disciplina previgente della riforma Fornero e/o sotto la disciplina più attuale del Jobs Act.
La giurisprudenza, inizialmente, aveva valutato l’obbligo di repêchage quale elemento esterno al “fatto”, ritenendo che la violazione di tale obbligo non comportasse l’applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18 comma 7 L. 300/70, ma – in quanto ipotesi residuale – solo la tutela indennitaria di cui all’art. 18 comma 5, posto che tale inadempimento non poteva ricollegarsi alla “manifesta” insussistenza del fatto.
Sul punto è intervenuta la Corte costituzionale la quale, con la sentenza n. 125/2022, ha dichiarato incostituzionale l’art. 18, settimo comma, secondo periodo, nella parte in cui tale norma prevedeva la reintegrazione – nel caso di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo – solo in ipotesi di “manifesta insussistenza” del motivo addotto.
In buona sostanza, la Corte ha rilevato l’illogicità della suddetta previsione normativa laddove riconosceva esclusivamente la tutela economica nei casi meno eclatanti di licenziamento sorretto da illegittimo motivo oggettivo, per l’appunto “non manifesto”.
La Corte ha ritenuto che la sussistenza di un fatto non si presti a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi.
Secondo la Corte costituzionale, due sono le alternative, tra di loro esclusive ed escludenti: o il fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sussiste e/o il fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non sussiste.
I Giudici di legittimità sulla base del diktat espresso dalla Corte Costituzionale hanno affermato che il fatto che è all’origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo include le ragioni tecniche sottese al recesso, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro ed il recesso stesso e anche l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore con la conseguenza che la mancanza di uno dei predetti elementi comporta l’insussistenza del fatto posto alla base del recesso determinando in capo al lavoratore illegittimamente licenziato il diritto ad essere reintegrato (Cass. sez. lavoro n. 34049-2022).
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Quanto ai licenziamenti assoggettati al regime delle tutele crescenti si registra invece l’intervento recente della Corte costituzionale con la sentenza n. 128/2024.
Come noto, l’art. 3 co 2 del D.lgs. 23/2015 prevede che: “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria…”
In buona sostanza, il co 2 della citata previsione normativa, prevede la reintegrazione del lavoratore al proprio posto, nel caso in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto materiale addebitato come presupposto per il licenziamento, esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e giusta causa e non anche che nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rispetto al quale la dichiarazione di illegittimità per assenza dei presupposti avrebbe giustificato unicamente la tutela indennitaria (art. 3 co 1 del D.lgs. 23/2015).
Al pari di quanto avvenuto, per l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, si è reso anche in questo caso necessario un intervento della Corte costituzionale, la quale, con la recente sentenza n. 128/2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 comma 2 del D.lgs. 23/2015 nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro.
In buona sostanza, con il suo intervento, la Corte costituzionale ha stabilito che la tutela reintegratoria deve essere applicata anche nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo quando il fatto materiale addotto dal datore di lavoro risulta insussistente. In pratica se un lavoratore viene licenziato per motivi economici o organizzativi e si dimostra in giudizio che tali motivi non esistono, il lavoratore avrà diritto alla reintegrazione nel proprio posto di lavoro.
Vi è però un fondamentale punto di discontinuità tra la citata pronuncia e la giurisprudenza costituzionale formatasi a proposito dell’art. 18 St. dei lavoratori.
In questo caso, la Corte ha precisato che nel concetto di insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non rientra la violazione dell’obbligo di repêchage che pertanto resta estraneo al “fatto materiale”, con la conseguenza che la mancata prova della inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni disponibili determinerà l’applicazione della tutela meramente indennitaria di cui all’art. 3 comma 1 del D.lgs. 23/2015.
Rispetto al precedente approccio di natura costituzionale vincolante per i soli lavoratori assoggettati alla disciplina previgente della riforma Fornero, con il nuovo arresto della Corte Costituzionale deriva che per i lavoratori assoggettati invece alla disciplina del contratto a tutele crescenti, la tutela reintegratoria potrà essere prevista solo ed unicamente nel caso in cui ad essere insussistente sia la decisione economica organizzativa con la quale il datore di lavoro ha inteso interrompere il rapporto e non anche la violazione dell’obbligo di repêchage, in relazione alla quale, opererà invece soltanto la sanzione indennitaria.
Giovanni Reho, Marco D’Andrea, rehoandpartners
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