Con la sua prima produzione sudcoreana, Hirokazu Kore’eda riesce a convincere non solo la critica ma anche il grande pubblico dando vita a un film che ha riscosso successo al settantacinquesimo Festival di Cannes, dove è stato presentato.
Una giovane donna abbandona il proprio figlio ancora neonato davanti a una baby box, un luogo controllato dove è possibile lasciare un bimbo piccolo in completa sicurezza senza subire domande indiscrete. Due uomini lo recuperano e decidono di prenderlo con sé al fine di trovargli una famiglia adottiva che possa amarlo passando attraverso il mercato nero. La madre, che torna per recuperarlo, scopre questo traffico e decide di unirsi al duo per assistere alla compravendita.
Inizia in questo modo un viaggio on the road che permetterà al gruppetto di cominciare a conoscersi, di confrontarsi e di parlare delle proprie idee, delle proprie esperienze, delle propria esigenze, delle paure e dei sogni fino alla creazione di un particolare legame tra tutti. Sulle loro tracce anche due agenti di polizia che inseguono il gruppetto nel tentativo di arrestarli cogliendoli sul fatto mentre commettono il reato.
Il tema non è certo facile ma lo sviluppo dei personaggi permette di addentrarsi all’interno delle spinte motivazionali e ideologiche di ciascuno dei protagonisti. Dong-soo patisce l’essere stato abbandonato dalla madre quando era ancora in fasce e nutre nel profondo dell’animo la speranza che lei possa prima o poi ricomparire. Kang-ho invece deve fare i conti con il difficile rapporto che ha con una figlia che non vede quasi mai. So-young, infine, ha il complicato ruolo di essere una madre che non può permettersi di affezionarsi al figlio per non soffrire nel momento del distacco, necessario per permettere al piccolo una vita migliore.
Prima di emettere giudizi sugli eventi che la trama porta avanti è però importante comprendere che giudicare i comportamenti unicamente basandosi su canoni occidentali significa vedere il film con un occhio chiuso. E’ importante approcciarsi alla storia al fine di comprendere le motivazioni di ognuno dei personaggi, di capirne il punto di vista così da capire cosa faccia compiere a ciascuno di loro le proprie scelte. Dopotutto la Corea del Sud è una società molto tradizionalista e con una certa chiusura mentale, soprattutto sotto certi punti di vista.
Quello che il regista riesce a fare in maniera perfetta è dare spazio alle emozioni di tutti i personaggi, trovare un giusto equilibrio con delicatezza senza mai perorare la causa di uno o dell’altro. Lascia che il centro della storia sia il confronto e l’evoluzione del pensiero, la maturazione, la presa di coscienza. I dialoghi sono formativi, specie quelli tra Dong-soo e So-young: il primo condanna in maniera incondizionata l’abbandono, l’altra invece lo preferisce nettamente rispetto all’aborto.
Chi ha ragione?
Non ha importanza. Perché la ragione dipende dalla presa di posizione, dal punto di vista che si decide di assumere nei confronti di una storia che è emotivamente impegnativa ma che lascia sempre spazio alla narrazione e mai al (pre)giudizio. La delicatezza delle sequenze, la semplicità dei dialoghi, l’importanza dei silenzi e delle espressioni facciali, gli sguardi e i piccoli gesti fanno in modo che la poesia del film risalti grazie anche all’ottimo lavoro svolto dagli attori, che danno grande spessore e tridimensionalità a ogni personaggio.
Le buone stelle – Broker è un film che dura due ore, sembra finire fin troppo velocemente ma resta dentro per una vita intera.
Titolo: Le buone stelle – Broker
Distributore: Plaion
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