di Salvatore Primiceri – L’approvazione della legge che rende perseguibile il reato di maternità surrogata anche all’estero, per i cittadini italiani che si rivolgano a Paesi dove tale pratica è legale, apre un dibattito profondo sia sul piano giuridico che su quello morale. L’introduzione del cosiddetto “reato universale” è un passo che, per molti, va ben oltre la volontà di regolare una materia complessa come la maternità surrogata, confinando nel terreno dell’arroganza normativa e della pretesa di stabilire ciò che è “moralmente accettabile” in ogni contesto, indipendentemente dal rispetto delle scelte individuali e delle libertà personali.
L’universalità di un reato: una forzatura giuridica?
Il principio di universalità dei diritti e delle leggi si regge generalmente sull’adesione a norme condivise internazionalmente, come nei casi dei crimini contro l’umanità o delle violazioni estreme dei diritti umani, dove un consenso globale definisce la necessità di intervenire. Tuttavia, applicare questo stesso principio a un tema etico, complesso e variegato come la maternità surrogata, implica una forzatura del concetto stesso di universalità del reato. La pratica non è un crimine universalmente riconosciuto e non causa di per sé danni diretti e immediati a terze persone. Piuttosto, essa nasce come risposta a esigenze e desideri legittimi, tra cui il diritto alla genitorialità e l’autonomia delle donne che scelgono di diventare surrogate.
Affermare che una legge nazionale possa dettare norme di comportamento anche oltre i propri confini significa porsi come giudice ultimo di cosa sia moralmente accettabile per tutti i cittadini, anche in luoghi dove esistono norme diverse. Questo principio, oltre a sollevare dubbi costituzionali, porta con sé il rischio di interferire nel campo dei diritti e delle libertà individuali, sminuendo la capacità dei cittadini di autodeterminarsi in base alle leggi dei paesi che scelgono di visitare.
I limiti della sovranità e l’arroganza normativa
Un altro aspetto critico della legge riguarda il concetto di sovranità. È legittimo che uno Stato stabilisca norme e leggi sul proprio territorio, ma estendere questa regolamentazione anche alle azioni dei suoi cittadini all’estero, in contesti dove la pratica è legale, rischia di ledere il principio stesso della sovranità statale e dei diritti di libertà. Imporre norme basate su principi etici locali a livello universale è un atto che mette in discussione il ruolo dello Stato come garante della libertà individuale, spingendolo verso una visione paternalistica e illiberale.
Questo tipo di arroganza normativa ricorda il concetto di “imperialismo etico”, una tendenza a credere che le proprie convinzioni morali siano superiori e che debbano quindi essere applicate come standard universale. Eppure, come ci insegnano pensatori come John Stuart Mill e Isaiah Berlin, il rispetto per la libertà e la diversità delle scelte individuali è essenziale in una società democratica, specialmente quando si parla di temi come la genitorialità e la famiglia, ambiti intimi e profondamente personali.
Valori universali e la scelta etica personale
Per chi crede nell’etica universalista, l’idea di valori condivisi è affascinante e potente. Ma questa condivisione deve nascere dal consenso, non dalla coercizione. Pretendere che una legge nazionale esprima valori universalmente condivisi rappresenta un pericoloso scivolamento verso l’autoritarismo morale: si attribuisce a una norma, che dovrebbe essere espressione della sovranità di un solo Stato, un valore che dovrebbe invece essere il risultato di una sintesi di diverse prospettive e culture.
Affermare che la maternità surrogata, in tutte le sue forme e contesti, sia sempre un male da vietare e punire implica l’adozione di un’etica statalista e centralizzatrice, che non lascia spazio alla libertà individuale e al rispetto delle scelte personali. La filosofia morale insegna che la vera universalità dei valori risiede nella loro capacità di essere accettati e condivisi senza coercizione, in modo volontario e consapevole.
Tra ideologia e ragionevolezza
La legge recentemente approvata appare quindi come un provvedimento fortemente ideologico, volto più a sancire una visione morale unilaterale che a rispondere ai reali bisogni e diritti dei cittadini. Imporre ai propri cittadini di rispettare un divieto persino oltre i confini nazionali significa privarli della libertà di scelta e di autodeterminazione, e soprattutto, si configura come un atto di presunzione normativa che ignora la complessità e la diversità della realtà umana.
In conclusione, se è vero che i legislatori hanno il diritto di definire limiti e regole all’interno del proprio paese, è altrettanto vero che il diritto alla libertà personale, all’autodeterminazione e al rispetto delle differenze culturali e legali altrui dovrebbe prevalere quando si tratta di interferire con le scelte intime e personali dei cittadini che, andando all’estero, cercano risposte a esigenze profonde e legittime. Per un’etica che sia veramente universale, il rispetto e la comprensione devono rimanere alla base, senza scivolare nel rischio di trasformare la legge in un’imposizione morale.
Salvatore Primiceri
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