di Stefano Bassi – La ristampa de La morale di Platone di Giuseppe Rensi da parte di Primiceri Editore, a cura di Salvatore Primiceri, rappresenta un’occasione rara per rileggere un testo fondamentale, originariamente una conferenza tenuta nel 1915 presso la Biblioteca Filosofica di Firenze. La chiarezza e la coerenza con cui Rensi ha esplorato il pensiero morale di Platone forniscono una visione unitaria della sua filosofia morale, frutto di un meticoloso lavoro di sintesi. Rensi collega infatti i concetti sparsi nei dialoghi socratici, fornendo un quadro coerente che va oltre la semplice enumerazione dei temi etici platonici.
Il punto di partenza di Rensi è l’analisi del concetto di virtù, che Platone esplora nel dialogo Menone. Qui, Socrate e Menone riflettono sulla possibilità di insegnare la virtù, lasciando senza risposta la domanda iniziale. Per Socrate, la virtù si pone in un luogo incerto tra una qualità innata e una conoscenza acquisibile. Secondo Rensi, questo dialogo rappresenta l’inizio di una riflessione sul ruolo della virtù nella vita umana che attraversa tutto il pensiero platonico, presentando via via prospettive che sembrano contraddirsi, ma che si svelano complementari.
Il percorso di Rensi passa poi attraverso il Protagora, dove Platone identifica la virtù come “scienza della misura”: qui, sapere ciò che è bene equivale a perseguirlo. Tuttavia, Rensi nota come Platone tenga conto del rischio rappresentato dai piaceri e dalle passioni, che possono alterare la percezione del bene. In questa prospettiva, Rensi interpreta la virtù platonica come l’arte di ordinare la mente in modo tale da percepire con chiarezza il bene e il male, senza interferenze emozionali.
La virtù, che inizia come conoscenza e misura, evolve nel pensiero di Platone fino a diventare ordine mentale, e infine conoscenza divina, raggiungibile solo da pochi eletti, come espresso nel Gorgia. Questa concezione “aristocratica” della virtù si collega direttamente all’idea che solo alcuni, predestinati “per divino fato”, possano realmente essere virtuosi. Platone risponde così alla corruzione politica e morale che osservava nella società ateniese, suggerendo che solo i filosofi, custodi della verità e della giustizia, possono guidare lo Stato.
Giuseppe Rensi, commentando questi sviluppi, rileva come la concezione della virtù nel pensiero platonico sia intrinsecamente legata alla filosofia, che diventa il massimo grado di saggezza e discernimento etico. La filosofia, per Platone, non è soltanto sapere teorico ma un percorso interiore di affinamento e di autoconoscenza, riservato a chi ha ricevuto il dono della virtù alla nascita. Nel Libro VI della Repubblica, Platone esplicita come questo dono non possa essere insegnato, rendendo i filosofi i naturali “custodi dello Stato”.
Uno degli aspetti più affascinanti del testo è la riflessione finale di Rensi sul parallelismo tra la società di Platone e quella del suo stesso tempo. Con questo, Rensi invita il lettore a interrogarsi sulla possibilità di un “tempo della filosofia”, in cui l’educazione e la virtù possano trasformare la società. Platone stesso, malgrado la sua visione aristocratica, tentò infatti di educare il tiranno a Siracusa, in una prova che si dimostrò rischiosa, se non fallimentare. Tuttavia, egli non smise mai di credere nella possibilità che la virtù possa essere trasmessa attraverso l’esempio e l’insegnamento, esortando, nella Settima Lettera, a non abbandonare questo ideale.
Rensi conclude con una riflessione che va oltre il contenuto dei dialoghi platonici, suggerendo che la virtù non sia mai un prodotto scontato né acquisibile con semplicità, ma un bene raro, prezioso e difficile, una luce per pochi che risplende anche per molti.
Stefano Bassi
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