(a cura dell’avv. Gerardo Iorlano) – In un contesto socio-economico complesso e competitivo come quello attuale, caratterizzato da una diffusa e generalizzata recessione, la crisi dell’impresa da evento eccezionale è diventata purtroppo sistemica.
Fare oggi impresa significa, quindi, anche – se non soprattutto – gestire con tempestività, competenza ed efficacia queste situazioni di criticità per evitare che diventino irreversibili.
Un ruolo decisivo è stato ed è svolto dai governi, chiamati a misurarsi sulla loro capacità di predisporre validi ed efficaci strumenti per fronteggiare questo stato di cose.
Emblematica in questo senso è l’evoluzione della normativa italiana.
Il Regio Decreto 267/1942 (Legge Fallimentare) considerava la liquidazione del patrimonio e la conseguente dissoluzione dell’azienda, come strumento ultimo e necessario di regolamentazione del fenomeno dell’insolvenza.
L’impronta del Legislatore rispondeva ai principi economici e giuridici propri di quel tempo, fondati su una visione patrimonialista della società e quindi sul favor creditoris. V’era un’impostazione “punitiva” dove predominava l’intento afflittivo nei confronti dell’imprenditore insolvente che andava, appunto, punito per la riprovevolezza della sua condotta.
La prima riforma attuata con il D.L. n. 35/2005 – che ha introdotto nel corpo della Legge Fallimentare tre strumenti di riorganizzazione tra loro alternativi ovvero il piano attestato di risanamento (art. 67, comma 3, lett d), l’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis) ed il concordato preventivo (art. 160) – ha rappresentato il punto di arrivo di un lungo percorso culturale, sociale e politico che, nel riconoscere centralità all’impresa in un contesto mondiale di diffusa recessione, ha radicalmente modificato l’angolo visuale del problema riconoscendo centralità all’azienda.
Si è così passati da un’impostazione punitiva ad una “conservativa”, nella pratica e realistica consapevolezza che solo con la conservazione dell’impresa si potesse più efficacemente salvaguardare sia il sistema di valori che questa rappresenta (posti di lavoro, produzione di ricchezza, sviluppo etc.) che lo stesso creditore.
La riforma del 2005 ha però rappresentato anche un punto di partenza.
Difatti, con il D.Lgs. n. 5/2006 dell’anno successivo è stata introdotta anche la transazione fiscale (art. 182 ter), un importante strumento di definizione dei debiti fiscali, previdenziali ed assistenziali da inserire negli accordi di ristrutturazione o nel concordato preventivo.
Da allora il Legislatore è intervenuto con ulteriori modifiche[1] finalizzate ad allargare e favorire sempre più l’accesso a questi strumenti fino ad arrivare a prevedere – con la L. 3/2012 – forme di tutela anche per piccole imprese e consumatori i quali, per requisiti dimensionali, si trovavano di fatto fuori dall’alveo della Legge Fallimentare. Trattasi delle procedure cd. di sovraindebitamento[2].
L’accelerazione verso la prospettiva conservativa è stata tale da richiedere di recente interventi correttivi in senso restrittivo per arginare situazioni di abuso da più parti segnalate.
Ciò posto in via generale e venendo al tema trattato, non si può da subito non rilevare come tutti questi strumenti si fondino su un solo ed imprescindibile elemento: l’accordo tra l’impresa debitrice ed i suoi creditori, siano essi privati, banche o stato.
Si differenziano tra loro principalmente per il grado di invasività dell’Autorità Giudiziaria.
Così:
- il piano di risanamento attestato consente di programmare, attraverso l’accordo tra creditori ed impresa, il risanamento di quest’ultima nella cornice di un piano industriale e finanziario attestato da un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili. E’ privo di intervento giurisdizionale ed è lasciato alla completa libertà delle parti coinvolte, ma consente l’irrevocabilità degli atti in esso previsti dando certezza attuativa al progetto di risanamento;
- l’accordo di ristrutturazione dei debiti è per l’appunto un accordo tra l’impresa e tanti creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti, accordo che deve anch’esso essere corredato da un piano attestato da un professionista (revisore) il quale deve tra l’altro certificare la sua attuabilità così come la sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. L’accordo va depositato presso il Tribunale competente per territorio il quale provvede alla sua omologazione;
- il concordato preventivo si sostanzia sempre in un accordo tra il debitore ed i suoi creditori in forza del quale il primo si obbliga a pagare i propri debiti proponendo un piano (attestato) che può essere con finalità liquidatorie o di ristrutturazione (cd. concordato in continuità). Il procedimento è tipicamente endoprocessuale nel senso che si svolge totalmente in ambito giudiziario con rilevanti poteri di decisione e di controllo in capo al Tribunale che può decidere sulla ammissibilità e/o omologabilità della proposta concordataria anche solo sulla base di un giudizio di meritevolezza dell’imprenditore. I creditori votano il piano concordatario che viene approvato con il raggiungimento della maggioranza dei crediti ammessi. L’aspetto più rilevante è che l’approvazione del piano vincola anche i dissenzienti mentre i creditori non votanti vengono considerati come favorevoli alla proposta (cd. silenzio/assenso);
- nella procedura di sovraindebitamento, ruolo centrale è invece attribuito agli organismi di composizione della crisi (oggi ancora non operativi in mancanza del decreto attuativo) ai quali è tra l’altro demandata la predisposizione della proposta e la gestione delle trattative con i creditori, mentre l’intervento del Tribunale è limitato ed ha una valenza pressoché “notarile”.
Come si vede, presupposto comune ed imprescindibile per la concreta attuabilità di tutti questi strumenti è l’accordo, anche se è agevole immaginare che più è invasivo l’intervento del Tribunale e dei suoi organi (giudice delegato, commissario giudiziale etc.) meno decisivo è l’aspetto volitivo.
Nel diritto romano con “in idem placitum consensus” si era soliti definire l’accordo contrattuale, elemento essenziale per l’esistenza del negozio. Trattasi di espressione frequentemente usata anche nella nostra prassi civilistica per indicare l’elemento soggettivo volontaristico necessario per la formazione del contratto, dove l’accordo non è altro che il reciproco e pacifico consenso, il punto di incontro tra le parti in ordine al programma contrattuale.
Orbene, se si dà uno sguardo veloce (anche solo attraverso i portali fallimentari) agli strumenti in concreto utilizzati, ci si avvede subito del fatto che le procedure di concordato preventivo rappresentino la quasi totalità. Quelle di ristrutturazione sono scarsamente attivate mentre quelle di sovraindebitamento (soprattutto se si considera la enorme platea dei possibili interessati) sono praticamente inesistenti.
Eppure, se da una parte è vero che il concordato preventivo vincola i creditori dissenzienti se è raggiunta la maggioranza dei crediti (nella quale vengono inclusi anche i creditori che non hanno votato), è altrettanto vero che è lo strumento più costoso ed oneroso ed è soprattutto quello dove l’imprenditore perde il diretto controllo dell’impresa.
Dovrebbe quindi essere uno strumento da utilizzarsi in ipotesi di crisi particolarmente grave tant’è che l’istituto nasce nel 2005 solo con finalità liquidatorie (il concordato in continuità è stato infatti introdotto nel 2012).
Le ragioni di questo stato di cose sono molteplici. Considero però decisive:
– il basso livello – qualitativo e quantitativo – dell’offerta professionale. I professionisti che operano in ambito fallimentare sono pochi, costosi e non strutturati. Sono abituati a gestire da decenni procedure di concordato e non si aggiornano;
– la scarsa propensione dei responsabili amministrativi (in ambito privato) e dei funzionari (in ambito bancario e statale) ad assumersi la responsabilità di decidere o comunque di esprimere un parere sullo stralcio, a volte rilevante, di un credito.
In sostanza, i professionisti valutano più agevole e remunerativo operare in ambito giudiziario attraverso il concordato piuttosto che optare per soluzioni alternative dove dovrebbero preoccuparsi di ricercare direttamente il consenso del creditore; gli amministratori ed i funzionari non si assumono responsabilità dirette preferendo muoversi (quando lo fanno) sotto il cappello giudiziario.
Si potrebbe quindi dire che lo scarso uso degli strumenti di soluzione della crisi d’impresa diversi dal concordato preventivo dipende in gran parte dalla mancata o dalla comunque scarsa propensione alla ricerca dell’accordo fuori dall’ambito processuale.
Se così è, la mediazione civile e commerciale può essere la chiave giusta per aprire nuovi orizzonti in questo particolare ambito.
Il procedimento di mediazione è disciplinato dal D.Lgs. 28/2010 e la sua pur recente storia è stata molto travagliata poiché osteggiata da corporativismi e conservatorismi culturali miopi.
Si svolge nell’ambito di organismi di mediazione, sia pubblici che privati, accreditati dal Ministero ed iscritti in un Registro presso di esso istituito.
Si caratterizza per la presenza del mediatore, terzo neutrale ed imparziale, il cui compito non è quello di giudicare ma di facilitare ed aiutare le parti a risolvere la controversia che le coinvolge.
Quella del mediatore è quindi un’attività molto particolare e complessa che richiede grande sensibilità e capacità di ascolto, oltre ad un’adeguata preparazione sulla materia trattata e ad una approfondita conoscenza delle tecniche relazionali e comportamentali.
I recenti dati elaborati dalla DGSTAT danno atto di un’alta percentuale di accordi (60% circa) in caso di procedimenti svolti con la partecipazione delle parti, ciò a comprova della particolare efficacia di questo strumento per la soluzione dei conflitti.
I principali punti di forza della mediazione sono:
– i tempi ridotti (il procedimento non può durare più di tre mesi)
– i costi contenuti (che vengono determinati in base a tariffe ministeriali in caso di procedimento obbligatorio o comunque soggette ad approvazione ministeriale per i procedimenti volontari)
– la pacificazione delle parti in conflitto, circostanza che può avere una particolare rilevanza proprio in ambito commerciale in quanto il rapporto può essere recuperato
Tutte queste caratteristiche ben si attagliano alle situazioni di crisi aziendale dove l’impresa in difficoltà:
– ha la necessità di intervenire tempestivamente
– non ha normalmente risorse finanziarie da investire proprio perché in crisi
– può avere interesse a mantenere, in una prospettiva di risanamento, i rapporti con banche e fornitori
L’imprenditore ed i professionisti che l’assistono potrebbero quindi comodamente impostare percorsi di risanamento affidandosi ad organismi che diano garanzie di serietà e qualità e che si avvalgano di mediatori specializzati nelle materie trattate.
In tempi ragionevoli ed a costi contenuti l’imprenditore potrebbe in concreto verificare la fattibilità del piano che ha ipotizzato o la necessità di modificarlo, ma per arrivare all’obiettivo: cercare un accordo con i suoi creditori e risanare la sua azienda.
Anche in questo particolare ambito la mediazione è una grande opportunità e bisogna fare in modo che venga colta.
[1] Le tappe di questo percorso normativo in ambito fallimentare sono state le seguenti:
D.L. 14 marzo 2005 n. 35 (“Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale”) convertito con modificazioni dalla L. 14 maggio 2005 n. 80
D.Lgs. 12 settembre 2007 n. 169 (“Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa”)
D.L. 31 maggio 2010 n. 78 (“Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”) convertito con modificazioni dalla L. 10 luglio 2010, n. 122
D.L. 22 giugno 2012 n. 83 (“Misure urgenti per la crescita del Paese”) convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134
D.L. 21 giugno 2013, n. 69 (“Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”) convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 98
D.L. 24 giugno 2014, n. 91 (“Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea”) convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014 n. 116
[2] La L. 3/2012 è stata significativamente modificata dal D.L. 18 ottobre 2012 n. 179 convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2012 n. 221
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