(di Jacopo Savi) – Come spesso accade vi sono casi di cronaca che ci colpiscono di più, per i quali siamo più attenti alle notizie riportate, che seguiamo nemmeno fossimo gli stessi investigatori.
Per me il delitto di Garlasco è stato uno di quelli. Certo non posso dirmi un esperto né, tanto meno, posso sostenere di saperne più degli stessi investigatori o magistrati che si sono occupati del caso, tuttavia posso dire di saperne abbastanza.
Nell’era di face book e social network vari ho partecipato a svariate discussioni sul punto, discussioni che, troppo spesso, si sono dimostrate più che altro degli scontri tra opposte tifoserie. Da un lato gli innocentisti e dall’altro i colpevolisti.
In tutto questo, però, una ragazza è stata uccisa, un assassino è rimasto in libertà (che sia stato Stasi o sia stata un’altra persona) e la Giustizia è stata ferita a morte.
Tutto si riapre poiché è di questi giorni la notizia della riapertura del processo in quanto la Suprema Corte di Cassazione ha accolto i ricorsi presentati contro la sentenza della Corte di Appello di Milano.
Non voglio entrare nel merito giuridico della questione, non sono un penalista e non ho la possibilità di approfondire come vorrei (e dovrei) tutti gli atti di causa, vi è però un qualcosa che salta all’occhio a chiunque rilegga le notizie del caso tentando di mantenersi neutrale osservatore.
Le indagini sono state svolte male.
La corruzione dei dati del computer di Stasi, poiché attivato ed usato malamente da personale non qualificato. I dubbi derivanti dalle molteplici, e talvolta sconnesse, ricostruzioni dei fatti in corso di causa operate dal Pubblico Ministero.
L’interesse, quasi ossessivo, degli inquirenti su Stasi che hanno escluso qualsiasi possibilità di ricercare altri indagati, nonostante un po’ di dubbi vi erano (la famosa bicicletta nera da donna, le cugine gemelle e la zia le cui dichiarazioni mal si conciliavano con le risultanze del navigatore satellitare, la non attendibilità della vicina di casa Poggi ecc.), non hanno fatto altro che inquinare le prove ed allontanare la possibilità di individuare il colpevole.
Questo perché laddove fosse stato effettivamente lui le indagini così svolte hanno minato tutto l’impianto accusatorio, se non fosse stato lui, allora l’assassino può stare tranquillo a distanza di 6 anni difficilmente si può rinvenire una prova contro altra persona.
Forse sono stato mal influenzato dalle numerose serie televisive di stampo poliziesco in cui gli inquirenti seguono le prove per individuare i colpevoli, ma la sensazione, in questo come in molti altri casi, che ho è quella per cui sempre più spesso, nella cruda e dura realtà, gli inquirenti adattano le prove raccolte al teorema accusatorio formulato prima ancora del processo.
Non è necessario essere un Grissom o un Gibbs per capire che seguire il teorema, adattando le prove porta (laddove quel teorema si rivelasse errato) all’unica conclusione di non individuare il colpevole.
Accusare qualcuno per avere un colpevole pur che sia non è servire la Giustizia, è colpirla, umiliarla, massacrarla. Uccidendo due volte le vittime che, incolpevoli, oltre ad aver subito lo scempio in vita, subiscono un secondo scempio dopo la morte.
Se è comprensibile che i parenti delle vittime seguano, o forse meglio, si aggrappino ad una teoria capace di lenire, seppure in misura minima, il dolore, non appare comprensibile quando ad abbracciare la teoria siano gli inquirenti poiché decidere in anticipo chi sia il colpevole e adattare le prove individuate a tale convinzione equivale a dimenticare il fondamento dell’attività di indagine, ovvero analizzare le prove per poter formulare ipotesi che, con metodo scientifico, devono essere vagliate per avvicinarsi il più possibile alla verità.
Avv. Jacopo Savi
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