di Salvatore Primiceri – Aristotele, nella sua Etica Nicomachea, affronta con profondità e rigore la questione del sommo bene, ossia il fine ultimo della vita umana. Seguendo la tradizione socratica e superando l’approccio platonico, il filosofo di Stagira individua nella eudaimonia (felicità) il fine supremo, un bene desiderato per sé stesso e non come mezzo per altro. Come scrive Aristotele: “Ogni arte e ogni indagine, e similmente ogni azione e scelta, sembra mirare a qualche bene; perciò fu detto bene a ragione che il bene è ciò a cui tutte le cose tendono” (Etica Nicomachea, I, 1).
Il bene supremo: oltre il piacere, l’onore e la ricchezza
Secondo Aristotele, le opinioni comuni sulla felicità spesso si concentrano su piacere, onore o ricchezza. Tuttavia, egli respinge queste idee: il piacere, se pur importante, è troppo vicino alla sfera animale; l’onore dipende dal giudizio altrui e non è intrinsecamente buono; la ricchezza è un mezzo, non un fine. Per Aristotele, il sommo bene deve essere autosufficiente (autarkés) e perfetto (teleion), qualcosa che basta a sé stesso e che completa la vita umana. Egli afferma: “Chiameremo perfetto ciò che è scelto per se stesso, che non è scelto per qualcos’altro e che è sufficiente da solo” (Etica Nicomachea, I, 7).
La felicità come attività dell’anima secondo virtù
La vera felicità risiede nell’attività dell’anima secondo virtù (enérgeia katà aretèn). Ogni essere raggiunge la propria eccellenza realizzando ciò che gli è più peculiare: per l’uomo, ciò è la ragione. La felicità, quindi, non è uno stato passivo, ma un’attività continua, guidata dalla virtù razionale.
La virtù, secondo Aristotele, si divide in due tipi:
- Virtù etiche: legate alla parte desiderativa dell’anima, si esprimono nel controllo delle passioni e nell’azione giusta.
- Virtù dianoetiche: legate alla parte razionale dell’anima, si realizzano nella contemplazione (theoria).
Come afferma Aristotele: “La felicità è un’attività dell’anima conforme alla virtù perfetta” (Etica Nicomachea, I, 13).
Contemplazione e vita pratica: un dualismo apparente
Nel decimo libro dell’Etica Nicomachea, Aristotele afferma che la forma più alta di felicità si trova nella contemplazione, un’attività pura della mente, libera da fini esterni. La contemplazione è stabile, autosufficiente e profondamente piacevole. Tuttavia, questa vita contemplativa, simile a quella divina, sembra entrare in tensione con la dimensione pratica della virtù morale.
Aristotele non ignora questa apparente contraddizione. La felicità umana autentica risiede in un equilibrio tra l’attività pratica e quella teoretica. La vita etica, con le sue virtù morali, è imprescindibile per l’uomo come essere sociale (zoon politikon), mentre la contemplazione rappresenta la sua aspirazione più alta, il momento in cui l’essenza divina dell’uomo trova piena realizzazione. “L’attività secondo l’intelletto è la vita più alta, perché l’intelletto è ciò che di più divino c’è in noi” (Etica Nicomachea, X, 7).
Fortuna, educazione e politica nella realizzazione della felicità
Aristotele riconosce che la felicità non dipende solo dalla virtù, ma richiede anche i cosiddetti beni esterni (salute, amici, ricchezza sufficiente). Tuttavia, questi elementi sono solo condizioni favorevoli, non la causa diretta della felicità.
Fondamentale, invece, è l’educazione morale, che deve iniziare fin dalla giovane età, guidata dalle leggi dello Stato. Lo Stato, attraverso leggi giuste, svolge un ruolo centrale nell’orientare i cittadini verso la virtù e la felicità collettiva. “È compito della politica occuparsi della felicità dei cittadini e guidarli verso la virtù attraverso leggi giuste” (Etica Nicomachea, I, 9).
La sintesi aristotelica: tra terra e cielo
Aristotele non offre una risposta definitiva su quale tra vita pratica e vita contemplativa costituisca la felicità più autentica. In realtà, le due dimensioni non si escludono, ma si completano. La vita morale, con la sua tensione verso il bene, prepara l’anima all’esperienza più alta della contemplazione.
La felicità umana, dunque, è un percorso complesso e dinamico, in cui virtù etiche e dianoetiche si intrecciano, e in cui l’uomo, pur essendo radicato nella dimensione pratica, non smette mai di guardare verso l’alto, verso quella dimensione contemplativa che lo avvicina al divino.
La dottrina aristotelica sulla felicità rappresenta, quindi, uno dei vertici della filosofia morale occidentale. In essa, teoria e pratica, etica e politica, individuo e comunità trovano un equilibrio delicato ma essenziale. Aristotele ci insegna che la vera felicità non è un semplice piacere momentaneo o un successo esteriore, ma un’attività dell’anima che si esprime attraverso la virtù, culminando nella serena contemplazione della verità. Come conclude Aristotele: “La felicità consiste in un’attività conforme alla virtù più alta, che è la virtù dell’intelletto” (Etica Nicomachea, X, 8). In questa sintesi tra pensiero e azione, l’uomo raggiunge la sua piena realizzazione, avvicinandosi, per quanto possibile, all’eterno e all’assoluto.
Salvatore Primiceri
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