di Giovanni Reho – Il divieto del cd. patto commissorio può riguardare ogni negozio giuridico utilizzato dal creditore per conseguire il risultato concreto – vietato dall’ordinamento – dell’illecita coercizione del debitore a trasferire la proprietà di un bene al creditore come conseguenza della mancata estinzione del debito.
Può configurarsi un patto commissorio ogni volta in cui il debitore sia comunque costretto al trasferimento del proprio bene in favore del creditore a tacitazione dell’obbligazione (Corte di Cassazione, 12.01.2009 n. 437; Corte di Cassazione, 02.02.2006 n. 2285).
Gli strumenti negoziali mediante i quali il patto viene solitamente dissimulato sono, da un lato, il contratto preliminare di compravendita, qualora la conclusione del negozio definitivo sia condizionata al persistente inadempimento del promittente venditore, alla data prevista per il rogito e, dall’altro lato, la vendita con patto di riscatto o con obbligo di retrovendita, le quali, pur nella loro diversità strutturale – avendo la prima efficacia reale e la seconda invece effetti obbligatori – prevedono l’immediato trasferimento della proprietà del cespite assunto come garanzia, con diritto del debitore cedente di riacquistarla in caso di adempimento all’obbligazione nei confronti del creditore cessionario. In queste ipotesi, la funzione del negozio non è di scambio, ma di garanzia.
Per la concreta tutela del debitore, cioè sottrarlo al rischio di subire strumenti di garanzia illeciti, il criterio di applicazione del patto commissorio è funzionale e non formalistico, con la possibilità di applicazione estensiva del divieto a molte fattispecie negoziali apparentemente lecite.
La nullità del patto è infatti ravvisabile anche nel contesto di più negozi tra loro collegati, nel caso in cui l’assetto complessivo degli interessi delle parti consenta di verificare che il meccanismo negoziale mediante il quale si compie il trasferimento di un bene in favore del creditore sia collegato non ad una lecita funzione di scopo ma ad uno scopo di garanzia.
Si potrà dunque prescindere (a) dalla natura obbligatoria, traslativa o reale del contratto; (b) dal momento temporale in cui l’effetto traslativo è destinato a verificarsi; (c) dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione; (d) dall’identità dei soggetti che hanno stipulato i negozi collegati, complessi o misti, ogni volta sia presente un rapporto di interdipendenza e una comune funzione strumentale e teleologica di garanzia (Corte di Cassazione, 19.05.2004 n. 9466).
In molti casi, la Corte di Cassazione ha precisato che la coartazione del debitore, soggiogato dalla discrezione del creditore è in re ipsa quando il debitore non disponga di alcuna possibilità di evitare la perdita del bene, utilizzato di fatto come veicolo di garanzia (Corte di Cassazione 05.03.2010 n. 5426).
Nell’ordinamento italiano, il divieto del patto commissorio è previsto dall’art. 2744 c.c., norma considerata di portata generale con l’obiettivo di sanzionare ogni risultato illecito la cui ratio sia quella ispiratrice dell’art. 2744 c.c.
Al di fuori della fattispecie espressamente descritta dalla norma, l’obiettivo è infatti quello di vietare qualunque accordo che consenta al creditore, di esercitare una “illecita coercizione” nei confronti del debitore al momento della conclusione del negozio, al fine di ottenere la proprietà di un bene – o l’obbligo al trasferimento – della parte debitrice nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione (o non sia in grado di adempierla).
Una diretta conferma è la pronuncia della Corte di Cassazione n. 2285/2006, III Sezione Civile: “Deve escludersi che l’art. 2744 c.c. (sul divieto del patto commissorio) costituisca una norma eccezionale, di stretta interpretazione, applicabile unicamente nell’eventualità il patto sia aggiunto al pegno, all’ipoteca, all’anticresi. Il divieto di patto commissorio, infatti, si estende a qualsiasi negozio, ancorché lecito e quale ne sia il contenuto, che venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento di proprietà di un suo bene come conseguenza della mancata estinzione del debito”.
Come confermato da Cassazione Civile n. 27363/2021, il divieto del patto commissorio e la conseguente sanzione di nullità radicale sono stati estesi a qualsiasi negozio, tipico o atipico, quale ne sia il contenuto, che sia in concreto impiegato per conseguire il fine, riprovato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8411 del 27/05/2003). Pertanto, in ogni ipotesi in cui quest’ultimo sia costretto ad accettare il trasferimento di un bene immobile a scopo di garanzia, nell’ipotesi di mancato adempimento di una obbligazione assunta per causa indipendente dalla predetta cessione, è ravvisabile un aggiramento del divieto di cui agli artt. 1963 e 2744 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 437 del 12/01/2009, e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18655 del 16/09/2004.
Come detto, il divieto è posto a tutela del debitore, quale parte debole del rapporto che necessita di protezione dagli abusi del creditore che potrebbe coartare la sua autonomia contrattuale, costringendolo a dare il bene in garanzia al fine di ottenere la concessione del credito. Potrebbe accadere inoltre che il bene concesso in garanzia abbia un valore superiore al credito garantito.
In caso di inadempimento, il creditore si appropria pertanto di un bene dal valore sproporzionato, atteggiandosi così l’intera operazione come vera e propria usura cd. reale (“reale” perché si compie attraverso l’impossessamento di un bene; dal latino “res”).
Viene peraltro considerata la funzione del divieto del patto commissorio anche in relazione alla tutela della cd. par condicio creditorum ovvero dell’inidoneità della causa di garanzia a sorreggere l’effetto traslativo prodotto dallo spostamento patrimoniale, in ogni caso in cui vi sia l’esigenza di protezione del ceto creditorio estraneo al patto.
Merita altresì da considerare la tesi secondo cui il fondamento del divieto in questione sia da ricondursi al divieto di autotutela privata. Invero, il creditore spogliando il debitore di un bene realizza una forma di autotutela, in antitesi al divieto di legge. Lo Stato ha il monopolio della forza ed è proibito ai singoli farsi giustizia da sé. L’autotutela è dunque vietata quando facoltà e poteri siano esercitati senza l’intervento del Giudice.
In tal senso è comprensibile la sanzione della nullità del patto commissorio in quanto, se così non fosse, il creditore incamererebbe il bene sic et simpliciter a seguito del verificarsi dell’inadempimento.
Per queste ragioni la giurisprudenza di legittimità è giunta alla conclusione di attribuire all’art. 2744 c.c. rango di norma materiale e di principio generale dell’ordinamento che mira a sancire un “divieto di risultato”. Sono dunque da ritenersi vietati tutti quei patti o negozi che mirano a realizzare un trasferimento a scopo sostanzialmente di garanzia, senza che abbia rilievo la veste formale del contratto, il tempus o la qualifica dei soggetti intervenuti.
La descritta evoluzione giurisprudenziale ha consentito di porre fine alla prassi di camuffare sotto le vesti di un diverso negozio, l’intenzione di concludere un patto commissorio vietato. La sanzione della violazione del divieto consiste dunque nella inefficacia e/o nullità degli atti traslativi del bene che dovrà essere restituito, unitamente ai frutti che ha generato in favore del creditore.
Avv. Giovanni Reho
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