di Claudio Salvati – Sono anni che la cinematografia francese ci allieta con commedie saporite e pepate, senza ombra di dubbio divertenti e intelligenti, eppure tutte inequivocabilmente uguali. Fatto non trascurabile, questo, che tuttavia non ha mai precluso la spassosa comicità de La cena dei cretini o Giù al Nord, di Potiche o di Quasi amici, al punto che si è sempre persuasi di vedere film ogni volta diversi.
Invece questo elemento comune è riassumibile in un incrocio di caratteri e personaggi opposti tra loro, una forma filmica che gli americani identificano col termine di buddy movie, e che i Francesi, invece, scansano da ogni definizione (non sia mai che la loro ispirazione sembri precotta). Anne Fontaine, regista de Il mio migliore incubo! non è una stupida: il precedente Coco avant Chanel, per quanto affidato al carisma da triglia di Audrey Tatou, era una pregevole biografia cinematografica poco incline all’agiografia che solitamente corrode anche le migliori intenzioni. Anche questo lavoro attuale riserva battute eccezionali e situazioni corrosive, ma non si discosta da quell’abusata commedia delle contraddizioni che, senza svelare troppi altarini, vede impegnata la “bobo” Isabelle Huppert (è così che i francesi chiamano i borghesi bohémien), gallerista parigina con la puzza sotto il naso e sempre ad un passo dal baratro di una comica crisi di nervi, ed il proletario Benoît Poelvoorde, che irrompe nella vita di Madame perché i rispettivi figli sono compagni di scuola. Tanto l’una è agiata, elegante ed impettita, quanto l’altro è invece squattrinato, buzzurro e ossessionato dalle “grandi tette delle donne”. E nonostante la signora sia allegramente sposata con lo spassoso editore di André Dussollier, qualche brivido per il coatto in canotta lo proverà pure lei. Ovviamente non ci saranno convenzioni sociali o ipocrisie di classe destinate a salvarsi da questo incontro/scontro. Quel che lascia un po’ perplessi de Il mio migliore incubo! è la perniciosa ideologia della Fontaine, che si identifica nella Huppert ma idealizza Poelvoorde, smascherando una sincerità un po’ troppo verbosa. Di certo non è un limite, grazie anche all’intelligente sceneggiatura di Nicolas Mercier che, facendo compiere al personaggio della damina alto-borghese il classico passo in avanti rispetto alla tanto temuta macchietta, coniuga ogni esigenza narrativa. È da qui che Il mio migliore incubo! acquista una nuova dignità, divenendo parabola attuale in grado di parlare di separazioni e divorzi, genitori e figli, fino ad arrivare all’ironica distruzione di un certo elitarismo culturale che, invece di avvicinare, divide. Che senso ha combattere arte e bellezza se, liberate dalle loro gabbie sociali, diventano qualcosa di cui tutti possono godere? Se Benoît Poelvoorde dimostra una volta di più d’essere un inestinguibile corpo comico, è soprattutto Isabelle Huppert a fare un grande lavoro su se stessa, esasperando la sua proverbiale algidità per poi stravolgerla con le infinite sfumature della commedia, così sorprendentemente inedita ma proverbialmente insuperabile.
Claudio Salvati
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