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di Avv. Giovanni Reho – Il licenziamento discriminatorio gode di diverse forme di tutela.

In materia di discriminazione di genere, l’art. 38 D. Lgs. n. 196/2006 prevede una procedura d’urgenza che può esser promossa non solo dal lavoratore ma anche dalle organizzazioni sindacali, delle associazioni e delle organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, o della consigliera o del consigliere di parità provinciale o regionale territorialmente competente.

Nei due giorni successivi, il giudice convoca le parti e assunte sommarie informazione, potrà ordinare la cessazione del comportamento discriminatorio illegittimo con l’obbligo di rimuovere ogni effetto pregiudizievole.

Si ritiene che al provvedimento antidiscriminatorio possa essere applicato l’art. 614 bis del c.p.c. che facoltizza il giudice a stabilire una penale in denaro per ogni giorno di ritardo nell’attuazione dell’ordine giudiziale.

Il provvedimento del Giudice assume la forma del decreto motivato contro il quale è ammessa opposizione entro quindici giorni dalla decisione. Il giudice si pronuncerà con sentenza soggetta agli ordinari strumenti impugnatori.

La discriminazione per motivi razziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o religiosi prevista dall’art. 44 del D. Lgs. n. 286/1998; la discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica in attuazione della direttiva 2000/43/CE; la discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale (art. 4 D. Lgs. n. 215/2003) nonché quelle di cui all’art. 3 Legge n. 67/2006 (discriminazione in danno di persone con disabilità) e quelle di cui all’art. 55-quinquies D. Lgs. n. 198/2006 (discriminazioni per ragioni di sesso) trovano uno specifico strumento di tutela nell’art. 28 D. Lgs. n. 150/2011 che, nell’ambito del nuovo rito semplificato di cognizione (art. 281 – decies c.p.c.), prevede che le parti interessate possono stare in giudizio anche personalmente senza il necessario ufficio di un difensore.

La peculiarità del rito previsto dall’art. 28 consiste nella possibilità per il ricorrente di fornire elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali desumere o presumere non solo una singola condotta discriminatorio ma anche l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori che riguardano più in generale forme discriminatorie subdole riferite ad esempio ai criteri di assunzioni, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in  carriera  e  agli stessi licenziamenti.

Considerata la specialità della materia e la potenzialità invasiva della discriminazione sul luogo di lavoro, l’onere di dimostrare la prova contraria incombe sul datore di lavoro.

Con l’ordinanza che definisce il giudizio, il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno   anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei  confronti  della  pubblica amministrazione,  ogni  altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel  provvedimento,  un  piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente.

Ai fini della liquidazione del danno, il giudice potrà considerare che l’atto o il  comportamento discriminatorio  costituiscono ritorsione  ad  una  precedente  azione  giudiziale  ovvero  ingiusta reazione ad una precedente  attività  del  soggetto  leso  volta  ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.

Le discriminazioni sono disciplinate dal legislatore in modo compiuto e pregnante, con una inedita preclusione introdotta dall’art. 441 quater c.p.c. rubricato “Licenziamento discriminatorio” che introduce la possibilità per il lavoratore di proporre la domanda di nullità del recesso per licenziamento discriminatorio, ove non già proposta con il tipico ricorso introduttivo del rito del lavoro, con i riti speciali previsti, a seconda delle fattispecie, dall’art. 38 del D. Lgs. 11 aprile 2006 n. 198 e dall’art. 28 del D. Lgs. 1° settembre 2011 n. 150.

In un’ottica di deflazione del contenzioso giudiziario, chi abbia agito con uno dei menzionati riti speciali, non può “agire successivamente in giudizio con rito diverso per quella stessa domanda”. Ne consegue che, una volta introdotta la domanda con uno specifico rito, per nessuna ragione, anche in caso di decadenza processuale, potrà essere nuovamente avviata la domanda con altro rito.

Avv. Giovanni Reho

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