di Giovanni Reho – La categoria del contratto di appalto e più in generale quella dei contratti di impresa era dogmaticamente assente nell’antica Grecia. Come in altri ordinamenti del passato, anche nel diritto greco non esisteva una classe professionale di giuristi e mancava, se non in forme arcaiche, una elaborazione sistematica degli istituti giuridici.
Nel mondo greco esistevano tuttavia due poli fondamentali di organizzazione del lavoro: la schiavitù da un lato e, in posizione diametralmente opposta, il “lavoro libero”. La prima si identificava con la condizione personale di un individuo assoggettato all’arbitrio di un altro individuo e rappresentava l’elemento costitutivo della cd. “economia schiavistica” il cui cardine era lo sfruttamento del “lavoro servile”.
Come è stato correttamente evidenziato da alcuni studiosi, la schiavitù vera e propria non era un sottoproletariato omogeneo in quanto vi appartenevano anche individui con diverse qualificazioni professionali e svariate condizioni sociali, non necessariamente riconducibili ad uno stato di povertà in senso stretto.
Le due accennate categorie, lavoro libero e servile, avevano margini di confine fumosi che ammettevano zone grigie non sempre autonomamente separabili. Nell’antica Grecia era infatti diffuso il fenomeno del cd. “lavoro tributario e coattivo” (di norma applicato, forse in modo discriminatorio, ad alcuni gruppi etnici) che consisteva nell’obbligo dell’individuo di coltivare terre per conto del proprietario e, per tale ragione, questi era costretto a risiedere sulle terre stesse.
Il lavoratore tributario, non libero né schiavo, si trovava in una posizione intermedia tra lo schiavo in senso stretto e il lavoratore libero, ma dipendente.
Il lavoro libero, nell’antica esperienza ellenica, era caratterizzato dalla consegna dell’oggetto sul quale il consegnatario avrebbe esercitato un diritto reale limitato nel tempo e nella sua efficacia sull’oggetto stesso. La consegna dell’oggetto prendeva il nome di “misthosis” che rappresentava una sorta di contratto non formale con effetti sia reali che obbligatori.
La “misthosis” aveva un impiego vastissimo: dall’affitto di terreni ai contratti di enfiteusi, dalla locazione di case, bagni, mulini, officine e colombaie all’affitto di schiavi o al noleggio di animali a scopo di lavoro o riproduzione; dall’autolocazione di sé stessi e delle proprie opere ai contratti di lavoro in senso stretto a quelli di servizio, di baliatico, per ingaggio di artisti, di tirocinio (o apprendistato) e d’insegnamento. Esempi di “misthosis” sono altresì presenti nei contratti di servizio il cui corrispettivo consisteva nel diritto agli interessi (o dello stesso capitale) di una somma ricevuta in prestito. In questi casi, il servizio era prestato dallo stesso debitore o da un membro della sua famiglia che era tenuto a consegnarsi presso l’abitazione del creditore o il luogo da questi indicato.
Sin dai primordi della civiltà ellenica, il lavoro libero poteva essere esercitato nelle forme del lavoro subordinato o del lavoro autonomo cui vi è sporadico accenno nella stessa Odissea di Omero.
Le attività generalmente ricomprese nella categoria del lavoro autonomo erano quelle del veggente, del medico, del costruttore edile, del cantore. Il lavoro subordinano veniva invece identificato per lo più con quello dei mercenari, dei pastori e dei braccianti agricoli. Nella stessa Odissea, tuttavia, alcune testimonianze portano a indicare i pastori salariati e i collaboratori dipendenti della primitiva azienda agricola nella terza categoria dei lavoratori tributari.
Elemento essenziale del lavoro libero era la retribuzione del lavoratore, cioè il controvalore della sua attività con il precipuo scopo di assicurargli i necessari mezzi di sostentamento, nel quale era incluso non solo il corrispettivo destinato a garantire il vitto e l’alloggio dovendo invece rappresentare una vera e propria “mercede” che, soprattutto nel lavoro autonomo, consisteva in una remunerazione adeguata alla natura e alla qualità della prestazione lavorativa. Sempre dall’Odissea si apprende che la mercede doveva essere sicura e sufficiente, in antitesi alla nozione, biasimata dallo stesso Omero, di retribuzione misera, meschina e indegna.
Nel diritto della civiltà ellenica la “messa a mercede” del lavoratore era assimilata alla “messa a mercede” della cosa locata e comunque concessa ad altri in godimento, con la conseguenza che la pigione o il nolo, il salario o il compenso dell’opera erano rispettivamente a carico del soggetto che ricavava un utile dal bene, dal bestiame o dal lavoratore mentre l’esigibilità della mercede dipendeva dal corretto compimento della prestazione.
Possiamo osservare come nell’antica esperienza ellenica sono rinvenibili alcuni istituti, seppure nella loro espressione più arcaica, delle moderne categorie del diritto del lavoro e delle stesse qualificazioni costituzionali di retribuzione, a conferma che la civiltà greca aveva conosciuto e sperimentato, anche nel diritto, un alto profilo culturale destinato a lasciare il segno nella storia dei tempi.
Giovanni Reho
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