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di Stefano Bassi – Nella storia della letteratura, pare che la fortuna nei libri sia come una di quelle spezie rare: promette meraviglie ma, alla fine, a pochi è concessa. E così, mentre leggiamo in Matteo Cuomo (“Nel mondo dei libri“, edizioni Libri dell’Arco Rimini) di poeti grandi e immortali come Dante e Ariosto che non hanno mai visto un quattrino dalle loro opere, sorge spontanea una domanda: cos’è davvero un “libro fortunato”? Forse una strana combinazione di talento, timing e… capricci del pubblico?

Immaginiamo Dante, il padre della lingua italiana, ormai beatificato come sommo poeta, che per il suo capolavoro ricevette solo un biglietto di sola andata per l’esilio, senza un soldo in tasca. E il povero Ariosto? Persino lui, celebrato per il suo Orlando Furioso, non poteva permettersi neanche un mantello per proteggersi dal freddo. Lamentandosi ironicamente con le Muse, avrebbe forse preferito una rendita piuttosto che una benedizione divina!

Ora, certo, il mondo letterario è mutato. Un’opera di successo, oggi, può diventare una miniera d’oro, trasformare l’autore in un milionario e assicurargli un trono nella “Repubblica delle Lettere”. Ma vediamo davvero ogni scrittore che pubblica diventare un magnate? La dura realtà dice tutt’altro. Migliaia di libri vengono pubblicati ogni giorno, ma solo una manciata riesce a scuotere davvero il pubblico, che, per sua natura, dorme beatamente fino a che un libro non gli grida in faccia. E allora, di chi è colpa se non riescono a vendere? Forse di quei lettori pigri, sonnacchiosi, indifferenti, che si risvegliano solo quando vengono bombardati da un clamore assordante.

Vediamo allora come funziona il meccanismo del “libro fortunato”. Pensate al Cuore di De Amicis: il “libro degli italiani” per eccellenza, tradotto perfino in giapponese, dove i protagonisti sono stati ritratti come piccoli scolari giapponesi, naso schiacciato e occhietti a mandorla. Quando il libro festeggiò la sua trecentesima edizione, venne celebrato con un banchetto che quasi commosse più dei suoi stessi capitoli. Ma mentre De Amicis continuava a sfornare altri titoli, sperando di replicare il successo, solo il Cuore riuscì a rapire l’immaginario collettivo, confermando un’amara verità per ogni scrittore: creare un bestseller è come avere un figlio prodigio tra una serie di figli mediocri. È lui che conquisterà i lettori, mentre gli altri resteranno a fare la comparsa.

E cosa dire del Quo Vadis di Sienkiewicz, romanzo che fece furore come pochi? Prima accolto nella più assoluta indifferenza, si tramutò all’improvviso in un fenomeno letterario planetario, a cui ogni critico cercava di agganciare un significato profondo e ogni libraio associava una promessa di ispirazione spirituale. Sienkiewicz, con quel cognome che suona come uno starnuto, divenne il campione della fede, proprio mentre la letteratura stava cercando di liberarsi del peso della scienza positiva per ritrovare un soffio di misticismo. Si gridò al miracolo, si esaltarono i personaggi, e il romanzo venne discusso e riletto come fosse l’ultima parola del pensiero cristiano. Oggi? È uno dei tanti classici, ma all’epoca, era il romanzo dei romanzi.

Anche Manzoni deve il suo posto nella storia dei libri fortunati grazie a I Promessi Sposi, opera che lo rese celebre al punto che persino il Granduca fece dipingere scene del romanzo nelle sue stanze. Se la lingua unificata ci rende orgogliosi della nostra italianità, il libro sembra in realtà avere raggiunto la fama grazie alla sua irresistibile “fortuna”. E intanto, tanti autori si sono imbarcati nella sua scia, pronti a pubblicare titoli come I figli di Renzo e Lucia, senza il minimo successo – l’originale, si sa, resta sempre il miglior rivestito di medaglie e tributi.

La satira di Cuomo coglie con precisione come il “libro fortunato” spesso si basi su un’alchimia imprevedibile. Un po’ come il pubblico, che applaude quando gli garba, e si annoia velocemente. Ecco perché, nei sogni di gloria, ogni autore dovrebbe ricordarsi la lezione di un detto popolare: chi è fortunato una volta, potrà non esserlo mai più.

Stefano Bassi

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