di Avv. Giovanni Reho – Avv. Giancarlo Sigona – Quando un rapporto di lavoro attraversa una fase di conflittualità, l’esigenza fondamentale del lavoratore concerne le tutele apprestante dalla legge, sotto forma di ammortizzatori sociali cui il lavoratore può fare affidamento per gestire il tempo necessario al reperimento di una nuova occupazione, in caso di licenziamento o di cessazione del rapporto per altra causa.
L’istituto di riferimento, sul piano delle tutele pubblicistiche, è la NASpI, acronimo, come noto, di “Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego” istituita dall’art. 1, d. lgs. 4 marzo 2015, n. 22.
Si tratta di una indennità mensile di disoccupazione che spetta ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che hanno perduto involontariamente l’occupazione e che dichiarino in forma telematica, all’apposito Portale nazionale delle politiche del lavoro, la propria disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l’impiego.
Come detto, lo stato di disoccupazione deve essere involontario; sono esclusi pertanto i lavoratori il cui rapporto di lavoro sia cessato a seguito di dimissioni o di risoluzione consensuale; tuttavia, l’accesso alla NASpI, sussistendone i presupposti è estesa anche ad ulteriori ipotesi:
- dimissioni per giusta causa, qualora le dimissioni non siano riconducibili alla libera scelta del lavoratore ma siano determinate da comportamenti datoriali che provocano notevoli difficoltà alla prosecuzione del rapporto di lavoro (circolare INPS 20 ottobre 2003, n. 163);
- dimissioni intervenute durante il periodo tutelato di maternità;
- risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, purché sia intervenuta nell’ambito della procedura di conciliazione presso la direzione territoriale del lavoro secondo le modalità di cui all’art. 7, legge 15 luglio 1966, n. 604 come sostituito dall’art. 1, co. 40, legge 92/2012;
- licenziamento con accettazione dell’offerta di conciliazione di cui all’art. 6, d.lgs. 22/2015;
- risoluzione consensuale a seguito del rifiuto del lavoratore di trasferirsi presso altra sede dell’azienda distante più di 50 chilometri dalla residenza del lavoratore e/o mediamente raggiungibile con i mezzi pubblici in 80 minuti o più;
Con riferimento all’ipotesi di crisi del rapporto di lavoro dovuto al rifiuto del lavoratore al trasferimento, si segnala una recente pronuncia della giurisprudenza di merito che affronta e supera la precedente posizione assunta in merito dall’INPS.
Come noto, il trasferimento del lavoratore consiste in uno spostamento definitivo del dipendente senza limiti di durata da una sede di lavoro ad un’altra. L’istituto è disciplinato dall’art. 2103 c.c. secondo cui il trasferimento può essere attuato solo in presenza di “comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive”; non può tuttavia escludersi che il lavoratore manifesti contrarietà ad un trasferimento che può risultare particolarmente gravoso e non conveniente e preferisca raggiungere un accordo consensuale con il datore di lavoro. In questo caso, il legislatore ha previsto il diritto del lavoratore a percepire la cd. NASPI; la posizione dell’INPS era tuttavia quella di negare tale diritto nel caso in cui al rifiuto del lavoratore al trasferimento operassero le successive dimissioni per giusta causa anziché l’accordo consensuale risoluzione del rapporto con il datore di lavoro.
In caso di dimissioni per giusta causa l’interpretazione dell’Ente di cui al Messaggio 26 gennaio 2018, n. 369 condizionava il diritto alla NASPI ad un iter piuttosto articolato e complesso. Era onere del lavoratore presentare infatti una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ex artt. 38 e 47 D.P.R n. 445/2000 che attestasse la volontà del lavoratore di “difendersi in giudizio” nei confronti del comportamento illecito del datore di lavoro (con allegazione di diffide, ricorsi ex art. 700 c.p.c., provvedimenti giudiziali, etc.), impegnandosi a comunicare all’Ente l’esito della controversia giudiziale o extragiudiziale. Laddove l’esito della lite dovesse escludere la ricorrenza della giusta causa di dimissioni, l’INPS si riservava il recupero del proprio credito.
Ebbene, il Tribunale di Torino Sez. Lavoro, sentenza n. 429 del 27 aprile 2023 ha ritenuto che tale distinzione imposta dall’INPS fosse ingiustificata e illegittima, considerando l’assenza di un riferimento normativo che confermasse la sua correttezza ed ha affermato il principio secondo cui il lavoratore dimissionario, affinché possa percepire l’indennità di disoccupazione, non deve dimostrare che il trasferimento sia illegittimo (ossia non sorretto da ragioni tecniche, organizzative o produttive), poiché la normativa di riferimento indica come unici requisiti per beneficiare dell’ammortizzatore sociale la perdita involontaria dell’occupazione ed il possesso, congiunto, dei seguenti requisiti: a) almeno 13 settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti; b) 30 giornate di lavoro effettivo nei 12 mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione (art. 3 D.Lgs. n. 22/2015).
Per il tribunale, una differente disciplina condurrebbe a riservare un diverso ed inaccettabile trattamento ad ipotesi del tutto analoghe. Ciò in quanto, «la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è sostanzialmente equiparabile alle dimissioni, non essendoci alcuna differenza concettuale tra la dichiarazione di volontà con cui il lavoratore pone unilateralmente termine al rapporto di lavoro e la dichiarazione di volontà che confluisce, unitamente ad analoga dichiarazione del datore di lavoro, nell’accordo oggetto di risoluzione consensuale.».
In conclusione, le dimissioni rassegnate in conseguenza al provvedimento datoriale di trasferimento in oggetto «devono ritenersi involontarie perché determinate da una condotta datoriale che ha reso obbligata la scelta del dipendente, di qui la ricorrenza nella fattispecie in esame del requisito della “perdita involontaria” dell’occupazione».
Si auspica, anche alla luce della menzionata sentenza, sia correttamente applicato il principio normativo sopra illustrato senza ulteriori errate interpretazioni.
Avv. Giovanni Reho – Avv. Giancarlo Sigona
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