di Giovanni Reho – Qualche giorno fa ho contato ben dodici persone intente a riparare una sola buca dell’asfalto. Una lavorava e le altre undici guardavano. Tra queste, quattro fumavano e due erano sedute sul marciapiede. Per completare la scena, considerato l’ingombrante ed inutile assembramento, c’era anche un vigile che regolava il traffico.
Mi sono chiesto: “chi paga questi lavoratori nullafacenti?”.
Poi ho cercato di rispondere ancora una volta ad una domanda che ci poniamo in tanti: “perché l’Italia non può funzionare?”
Seguendo il mio istinto ho aperto repentinamente il finestrino dell’auto e tentando per quanto mi era possibile di contenere l’indignazione che provavo ho esclamato: “dodici persone per una sola buca!”. Alcuni di loro mi hanno guardato sbigottiti ed altri con un ghigno divertito, mentre uno di loro, con aria sfrontata e sbrigativa, mi incitava a tirar dritto.
La prepotente indolenza che avevo osservato in quei lavoratori mi ha riportato alle dimensioni contraddittorie del mondo del lavoro e mi ha fatto pensare quanto quel disinvolto disinteresse per il proprio lavoro fosse inammissibilmente egoistico ed ingiusto.
Ogni giorno molti lavoratori devono gestire situazioni e condizioni di lavoro difficili, eppure impiegano le proprie energie con dedizione, responsabilità e rispetto per sé e gli altri, con la consapevolezza che il proprio lavoro è fonte di autostima, di benessere e di dignità.
Altre persone invece hanno perso il proprio lavoro e vivono la mancanza di un impiego come motivo di umiliazione personale e di annichilimento della propria dignità, non trovando le parole per giustificarsi davanti ai propri figli ed affrontando fasi di profonda crisi nell’impossibilità di provvedere alle necessità familiari essenziali.
In molti paesi del mondo le condizioni di lavoro sono disumane, senza adeguata nutrizione e senza orari, in assenza di prerogative minime di igiene e di sicurezza. La dignità della vita umana non ha nessun valore, ancora meno quella del lavoro, imperversato dalla malvagità dello sfruttamento senza limiti della persona umana.
Dovremo aprirci alla considerazione di quanto sia relativo il concetto di dignità del lavoro che purtroppo varia con i luoghi e i sistemi di riferimento, nei quali possono essere assenti molti valori che invece la nostra condizione ha già acquisito. Faremmo bene a ricordarci che la garanzia dei nostri diritti dipende anche da noi e dal senso di doverosità e responsabilità con cui interpretiamo il nostro ruolo nella società nella quale abbiamo il privilegio di appartenere.
Non possiamo pretendere che la dignità del nostro lavoro dipenda sempre dagli altri, dalle leggi, dalle istituzioni, da chi ci offre un’occasione di lavoro e ci assicura una adeguata retribuzione.
Molto spesso siamo noi stessi che dobbiamo dare dignità al nostro lavoro, dare valore a quello che facciamo e valore al modo in cui adempiamo ai nostri impegni. Dovremmo avere più consapevolezza che negare valore al nostro lavoro, qualunque esso sia, significa non avere rispetto di sé, del proprio destino e del proprio futuro.
Senza questa consapevolezza corriamo il rischio di privarci del diritto di contribuire alla formazione di una società sana alla quale desideriamo appartenere, negandolo anche alle persone più care a cui teniamo e al nostro prossimo nel senso più ampio a cui vogliamo pensare.
Il lavoro, in ogni sua forma, deve essere lo specchio della nostra persona nel quale si riflettono i nostri valori migliori: dignità, libertà, lealtà e coraggio per il piacere di dare e di contribuire al progresso personale e di tutti.
Per raggiungere i risultati migliori, anche quelli più ardui cui possiamo anelare, dobbiamo recuperare il valore di “far bene” come “atto di libertà”, conferendogli il valore di dignità fondamentale quale è e deve essere nella vita di tutti.
Dare dignità al proprio lavoro significa “far bene” il proprio lavoro, con la certezza di fare comunque e sempre la cosa giusta, senza condizionamenti o giustificazioni che non siano esclusivamente quello di “far bene”.
Giovanni Reho
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