di Salvatore Primiceri – La sofistica greca rappresenta uno dei momenti cruciali nella storia del pensiero filosofico occidentale, in quanto segnò la svolta dal focus sulle questioni cosmologiche e ontologiche verso un’attenzione più profonda alla soggettività umana e alle dinamiche del linguaggio e della conoscenza. In questo contesto emergono due figure emblematiche: Protagora e Gorgia, i quali incarnano i due pilastri fondamentali della sofistica. Protagora è il teorico di una critica radicale alla scienza e alle certezze oggettive, mentre Gorgia dimostra con la sua maestria retorica come tale critica si traduca in una pratica efficace e influente nella vita sociale.
Protagora: l’uomo misura di tutte le cose
Protagora nacque ad Abdera intorno al 480 a.C., e il suo insegnamento si diffuse in tutto il mondo greco, trovando particolare successo ad Atene, dove strinse rapporti con figure illustri come Pericle ed Euripide. Tuttavia, fu costretto all’esilio a causa di accuse di ateismo, con il suo scritto sugli dèi bruciato pubblicamente. Protagora morì intorno ai 70 anni, avendo dedicato 40 anni alla sua professione.
Il suo principio fondamentale, “l’uomo è misura di tutte le cose”, costituisce una delle pietre miliari della riflessione filosofica sul relativismo e sulla soggettività. In questa frase, Protagora esprime l’idea che la realtà non esista in modo indipendente dalla percezione individuale: ciò che appare a me è reale per me, ciò che appare a te è reale per te. Questa concezione radicale del relativismo epistemologico implica che non vi sia una verità assoluta, ma solo percezioni individuali che variano da persona a persona. La verità, secondo Protagora, non risiede in un mondo oggettivo e immutabile, ma si manifesta nella percezione sensibile di ciascun individuo.
Questo soggettivismo radicale pone l’uomo al centro della realtà, ma riduce anche la possibilità di distinguere tra verità ed errore, poiché ogni sensazione è chiusa in se stessa e non può essere confrontata con altre. L’immagine del flusso eracliteo, in cui tutto è in costante divenire, ben descrive il pensiero protagoreo: ogni percezione è effimera e temporanea, e non vi è alcun punto fermo a cui aggrapparsi.
Tuttavia, Protagora riconosce che una società non può vivere in un caos di percezioni individuali mutevoli. Perciò, egli introduce il concetto di convenzione sociale: verità, bene e bellezza non sono definiti dalle sensazioni individuali, ma da ciò che la comunità concorda di considerare come tali. In questo modo, Protagora supera l’individualismo estremo e riconosce la necessità di stabilità sociale, anche se questa è costruita su basi convenzionali e non assolute. È un concetto di verità non più fondato su criteri oggettivi, ma su un accordo intersoggettivo che garantisce la coesione sociale.
Il coronamento della sua dottrina è rappresentato dal suo scetticismo nei confronti della religione: «intorno agli dèi non posso pronunziarmi, se sono o non sono», afferma Protagora, indicando l’impossibilità per l’uomo di conoscere ciò che non può essere percepito direttamente dai sensi. Questo scetticismo rivela la crisi finale del suo empirismo, che si trova impotente di fronte a tutto ciò che trascende l’immediata percezione sensibile.
Gorgia: il potere della retorica e il soggettivismo estremo
Se Protagora rappresenta il teorico del relativismo conoscitivo, Gorgia, nato a Leontini in Sicilia, ne è il pratico esecutore, attraverso la sua arte retorica. Arrivato ad Atene nel 427 a.C. come ambasciatore, Gorgia conquistò rapidamente fama per la sua abilità oratoria. Platone lo descrive nel dialogo Gorgia come un maestro nell’arte di persuadere gli altri mediante discorsi, una capacità che, a differenza del sapere scientifico, non si basa sulla conoscenza intrinseca degli oggetti, ma sulla convinzione suscitata nell’uditorio.
Gorgia esplicita apertamente il carattere soggettivo della sua arte, affermando che la retorica non mira a trasmettere verità, ma a convincere l’interlocutore, indipendentemente dal contenuto del discorso. Questo atteggiamento radicalizza il relativismo sofistico, poiché non vi è alcun contenuto oggettivo che possa prevalere: il successo dell’oratore dipende unicamente dalla sua capacità di persuadere, di suscitare una fede immediata nel pubblico. Non a caso, Socrate descrive la retorica come una forma di adulazione, una pratica manipolatoria che manca della razionalità necessaria per essere considerata un’arte vera e propria.
Nonostante la critica socratica, Gorgia non si nasconde dietro il moralismo, come fanno altri sofisti, ma accetta pienamente la sua posizione: l’arte della persuasione è una tecnica di potere, indipendente dal contenuto morale o intellettuale. Egli insegna ai suoi studenti a “colpire” gli avversari con pugni oratori, senza preoccuparsi dell’uso lecito o illecito di tale abilità. La sua indifferenza per il contenuto è il frutto di un profondo scetticismo scientifico, che emerge nel suo trattato Sull’essere o sulla natura, in cui Gorgia dimostra tre tesi provocatorie: 1) nulla esiste; 2) se qualcosa esiste, non può essere conosciuto; 3) se può essere conosciuto, non può essere comunicato.
Questo scetticismo estremo smantella ogni presunzione di verità oggettiva e indica come, per Gorgia, la comunicazione e la conoscenza siano in ultima analisi atti soggettivi e individuali. Tuttavia, nella sua esaltazione del potere retorico e della fede immediata, egli pone le basi per una comprensione della comunicazione come forza autonoma, indipendente da ogni presupposto intellettuale o contenutistico.
Protagora e Gorgia, quindi, pur partendo da presupposti diversi, rappresentano due facce della stessa medaglia: la critica alla scienza oggettiva e la centralità del soggetto nella determinazione della verità e della conoscenza. Se Protagora teorizza il relativismo epistemologico, cercando di bilanciare le necessità individuali e sociali attraverso la convenzione, Gorgia traduce tale relativismo in una pratica retorica che esalta la forza persuasiva della parola, indipendentemente dalla verità o falsità del contenuto. Entrambi, con il loro scetticismo e la loro attenzione al soggetto, anticipano tematiche che rimarranno centrali nella filosofia successiva, aprendo la strada a riflessioni critiche sulla natura della conoscenza, della verità e del potere del linguaggio.
Il relativismo, il senso comune e il buonsenso: un contrasto fondamentale
Un elemento cruciale della riflessione sofistica, in particolare in Protagora, è il concetto di relativismo legato alla convenzione sociale. Protagora, come visto, considera la verità non come qualcosa di assoluto, ma come il frutto di un accordo sociale che si sviluppa all’interno di una comunità. Questo senso comune nasce dall’esigenza collettiva di stabilità e coerenza, permettendo agli individui di accordarsi su ciò che è ritenuto giusto o vero in un determinato contesto storico, sociale e culturale. Tuttavia, tale accordo è intrinsecamente mutevole e dipendente dalle circostanze del tempo e del luogo, senza pretese di validità universale. Il senso comune, dunque, rispecchia un compromesso necessario per la convivenza civile, ma non rappresenta una verità assoluta.
Il relativismo protagoreo, tuttavia, pone un problema centrale: se ogni verità è relativa alle percezioni sensibili individuali o alle convenzioni sociali, come si può aspirare a un principio di giustizia o di bene che trascenda il particolare e il contingente? In questo senso, il relativismo sofistico diviene un ostacolo nella ricerca della verità, perché si accontenta di ciò che appare giusto o vero in un dato momento, senza aspirare a criteri più elevati e stabili.
È qui che si inserisce la distinzione con il buonsenso. A differenza del senso comune, il buonsenso si configura come una facoltà che ricerca l’azione giusta e virtuosa non in base a convenzioni contingenti, ma seguendo un principio morale che mira all’universalità e alla giustizia assoluta. Mentre il senso comune è un accordo sociale, il buonsenso è la capacità dell’individuo di giudicare ciò che è giusto in sé, oltre i vincoli delle convenzioni. Socrate, opponendosi ai sofisti, intraprende proprio questa strada: una ricerca incessante della verità che non si accontenta delle apparenze o delle opinioni prevalenti, ma che tenta di scoprire quei principi morali universali che dovrebbero guidare le nostre azioni.
Il buonsenso, che si può considerare una caratteristica intrinseca dell’essere umano (su cui filosofi e pensatori discutono se sia innato o acquisito), non si limita a seguire la legge o le norme sociali; anzi, cerca costantemente quei valori superiori, come la virtù e la giustizia, a cui anche la legge dovrebbe ispirarsi. Se il senso comune è condizionato dal contesto storico e sociale, il buonsenso tende a trascendere tali contingenze, mirando al bene comune e alla verità universale. È questa tensione verso l’universalità, che si colloca al di sopra delle convenzioni mutevoli, che rende il buonsenso una guida essenziale nella ricerca della verità e del giusto, obiettivi che il relativismo sofistico, con la sua rinuncia a criteri stabili, non può offrire.
In definitiva, mentre il relativismo sofistico si limita a offrire una visione fluida e contingente della verità e della giustizia, basata sul consenso e sull’accordo sociale, il buonsenso propone una visione etica fondata sulla ricerca di principi universali che possano orientare l’azione umana verso il bene e la virtù, ponendosi come criterio ultimo anche rispetto alle leggi umane. Questo contrasto fondamentale continua a interrogare e a sfidare la filosofia fino ai giorni nostri, ponendo la questione se si debba seguire la mutevolezza delle convenzioni o aspirare a una verità più alta e immutabile.
Salvatore Primiceri
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