di Avv. Giovanni Reho del Foro di Milano – Il rischio da contagio da COVID – 19, riferito al contesto aziendale, ha peculiarità diverse da ogni altro rischio, rappresentando un fattore di pericolo “esogeno” all’azienda, cioè estraneo al luogo di lavoro e al normale contesto lavorativo.
In concomitanza all’esposizione al rischio intrinseco all’attività aziendale (derivante ad esempio dall’uso di uno strumento meccanico, un utensile, un videoterminale, etc.), i lavoratori sono esposti ad una insidia ulteriore, ‘esterna’ all’azienda di cui non hanno esperienza nella propria quotidianità lavorativa.
Si può comprendere come a causa dell’emergenza pandemica e delle peculiarità del rischio sopra descritto, il datore di lavoro sia costretto a gestire una condizione di lavoro di carattere eccezionale, associata ad un fattore di pericolo potenzialmente elevato per la salute dei lavoratori, senza tuttavia potersi avvalere di protocolli convenzionali sperimentati.
La specificità del rischio da contagio da agente infettivo “endogeno” all’azienda impone pertanto l’analisi di alcune questioni problematiche, sia in relazione alla posizione di garanzia del datore di lavoro che in relazione alle aspettative di tutela dei lavoratori.
Un primo problema deriva dall’assenza, nell’attuale panorama normativo nazionale e comunitario, di una disciplina specifica in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro in caso di emergenza da epidemia o pandemia.
Dalla fine del 2003, da quando i focolai di influenza aviaria da virus A/H5N1 sono divenuti endemici nei volatili nell’area dell’estremo orientale e il virus ha causato infezioni gravi anche negli uomini, è diventato più concreto e persistente il rischio di una pandemia influenzale.
Per questo motivo l’OMS ha raccomandato a tutti i Paesi di mettere a punto un “Piano Pandemico” e di aggiornarlo costantemente seguendo le linee guida concordate. Anche l’Italia, nel rispetto delle suddette raccomandazioni, ha elaborato un “Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale” sottolineando tra l’altro che l’incertezza sulle modalità e i tempi di diffusione dell’agente infettivo determina la necessità di preparare in anticipo le strategie di risposta alla eventuale pandemia, tenuto conto che “tale preparazione deve considerare tempi e modi di risposta”.
Deve al riguardo rilevarsi che sia le raccomandazioni dell’OMS che l’elaborazione del successivo Piano Pandemico nazionale non hanno considerato specificamente le problematiche legate all’impresa e ai settori produttivi. Questa lacuna rappresentata oggi la maggiore causa dell’incertezza, e in qualche modo dell’improvvisazione, con cui si tenta di gestire la difficile convivenza tra le esigenze di tutela della salute pubblica e la necessità di mantenere vitali i settori produttivi.
L’evidenza di tale limite nel panorama normativo nazionale e comunitario ha lo scopo di indicare la necessità di una riflessione seria ed urgente da parte delle istituzioni governative competenti con l’obiettivo di dotare il sistema delle tutele del lavoro di una disciplina legislativa ad hoc per l’impresa e la produzione in caso di pandemia o epidemia, che tenga conto:
(a) dell’importanza e della necessità di tenuta del sistema economico nell’interesse della produzione e della conservazione dei posti di lavoro;
(b) dell’importanza di valutare l’impatto della pandemia sui vari comparti produttivi e della complessità ed articolazione degli stessi, dotandoli di una normativa specifica chiara e, per quanto possibile, esaustiva in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro;
(c) della necessità di coordinare un “Piano pandemico per la tutela della produzione e la protezione dei lavoratori” con il Piano Pandemico generale al fine di una risposta concertata ed equilibrata, tenuto conto dei vari livelli ed ambiti di intervento nei diversi contesti territoriali di riferimento comunitario, nazionale e locale;
(d) della necessità di considerare l’impatto della pandemia sull’organizzazione e i costi dell’impresa che deve fronteggiare un rischio di natura eccezionale ed un correlato notevole coinvolgimento delle risorse non solo economiche ma anche adattive da parte del datore di lavoro e dei lavori, in un contesto organizzativo e lavorativo eccezionale ad impatto psicologico ed emotivo “stressogeno” particolarmente elevato sia per il datore di lavoro che per i lavoratori;
(e) dell’importanza di considerare il sistema economico e produttivo non solo nell’ambito degli interessi particolari dell’impresa e del singolo lavoratore, ma anche e soprattutto della necessità di valorizzare l’impresa e ogni singola risorsa umana impiegata nel sistema produttivo alla luce e nel rispetto del rilevante contributo in termini di solidarietà sociale ed economica che sono in grado di garantire – in un contesto emergenziale eccezionale provocato da pandemia – e che assume meritorio carattere di interesse pubblico generale, come tale da presidiare e garantite con tutele speciali.
Un secondo importante motivo di riflessione provocato dall’attuale emergenza pandemica deriva dall’assenza di obblighi da parte del datore di lavoro di estendere la valutazione del rischio aziendale “al di fuori dell’azienda” e quindi rispetto a fonti di rischio esterno, cioè – come già chiarito – estranee al “luogo di lavoro” in senso stretto.
Si tratta, come è evidente di un problema che deriva, da un lato, dalla natura “esogena” del rischio da agente infettivo rispetto al contesto aziendale e, dall’altro, dalla lacunosità dei Piani nazionali pandemici nello specifico settore dell’impresa e della produzione di cui si è detto.
Deve tuttavia considerarsi che anche il cd. “TUSL”, Testo Unico Sicurezza Lavoro di cui al Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81 non prevede una disciplina specifica che si riferisca al rischio da contagio da agente biologico “esogeno”, cioè proveniente dall’esterno dell’azienda. Ne consegue, dunque, che almeno nel caso in cui il fattore di rischio provenga dall’esterno e non sia l’effetto di una propagazione successiva all’interno dell’azienda, il datore di lavoro non ha strumenti ricognitivi e di ‘mappatura’ di tale fonte “esterna” all’azienda, con conseguente (e consistente) difficoltà di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori in assenza di una valutazione completa e onnicomprensiva del fattore di rischio considerato.
Il citato “TUSL”, inoltre, impone al datore di lavoro di compiere una valutazione del rischio specifico esclusivamente ‘all’interno’ dell’azienda. L’art. 2, lettera c) del menzionato Decreto legislativo qualifica come azienda “il complesso della struttura organizzata dal datore di lavoro pubblico o privato” e l’art. 62 dispone che “si intendono per luoghi di lavoro, i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”. Non manca pertanto nel “TUSL” un’accezione anche ampia ed estensiva di “luogo di lavoro”, comprendente ad esempio i mezzi di trasporto, i cantieri mobili o temporanei, le industrie estrattive, etc. Va detto tuttavia che tale qualificazione, per quanto estesa, non comprende la valutazione del rischio specifico “esterno” all’azienda, quale quello, come si è avuto modo di precisare, che incombe sulla salute pubblica in caso di pandemia.
Alla luce di tale evidenziato limite alla possibilità di valutazione del rischio da parte del datore di lavoro (ammesso – beninteso – che possa essere riconosciuto nel catalogo dei suoi obblighi anche in una prospettiva de iure condendo), ne consegue che, nell’ipotesi in cui l’imprenditore sia in grado di elaborare un adeguato piano di prevenzione e di protezione “all’interno” dei luoghi di lavoro, detto piano – rispetto al rischio da contagio da agente patogeno che proviene dall’esterno – si rivelerebbe ovviamente incompleto e pericolosamente vulnerabile.
In modo strettamente collegato al tema sopra considerato, l’emergenza in atto pone l’ulteriore tematica del difficile bilanciamento, nell’ambito dei beni costituzionalmente protetti, tra il diritto alla privacy del singolo lavoratore e la tutela della salute e della sicurezza della generalità dei lavoratori dell’azienda.
L’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, in un comunicato del 2 marzo 2020, ha espressamente dichiarato che “i datori di lavoro devono astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato, anche attraverso specifiche richieste al singolo lavoratore o indagini non consentite, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del lavoratore e dei suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera lavorativa”.
L’indicata Autorità ha altresì precisato che “la finalità di prevenzione dalla diffusione del Coronavirus deve essere svolta da soggetti che istituzionalmente esercitano queste funzioni in modo qualificato” sottolineando che non sono ammesse “iniziative autonome che prevedano la raccolta di dati anche sulla salute di utenti e lavoratori che non siano normativamente previste o disposte da organi competenti”.
La posizione assunta dall’Autorità garante per la privacy se, da un lato, ha ribadito i “limiti” del datore di lavoro – quindi, implicitamente, l’assenza di un suo obbligo – alla valutazione del rischio “esterno” all’azienda, dall’altro, ha confermato indirettamente l’esistenza di un importante vulnus nel sistema complessivo della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Sembra dunque che sfugga, anche in questo caso, la complessità del problema. L’impossibilità di valutare il rischio specifico prima che il virus oltrepassi il confine dell’azienda può rendere del tutto inutile la valutazione del rischio pur diligentemente operata “all’interno” dell’azienda. In altre termini, volendo proporre un esempio tra i tanti possibili, se il datore di lavoro ha stabilito un protocollo di sicurezza sui luoghi di lavoro a tutela dei lavoratori e degli utenti ma non è in grado di verificare se il protocollo adottato (o altro adeguato protocollo previsto ad hoc) sia stato puntualmente e correttamente osservato in ambito extra aziendale o extra lavorativo, l’obiettivo di tutela della sicurezza e della salute della generalità dei lavoratori dell’azienda rischia di essere pericolosamente vanificato.
Si pone al riguardo di considerare il problema, non secondario, del contagio da COVID – 19 del lavoratore contratto in itinere e, ancora più specificatamente, del contagio che il lavoratore o altro utente (fornitore, cliente, visitatore dell’azienda) può aver incontrato in un ambito diverso da quello lavorativo, ad esempio durante la pausa-pranzo, il tempo libero in tutte le sue espressioni e possibilità, sino a comprendere anche lo stesso contesto familiare e ambiente domestico.
E’ plausibile che ove la fonte del contagio sia esterna all’azienda e al datore di lavoro è sottratto il potere-dovere di prevenzione e di protezione rispetto al rischio “esogeno” all’azienda, nell’ipotesi in cui il virus superi il confine aziendale a causa di una fonte esterna sulla quale il datore di lavoro non ha alcuna forma di controllo, sia compito inderogabile delle Autorità deputate, ciascuna per il proprio ambito di competenza, nel particolare contesto emergenziale considerato, stabilire tempi solleciti ed urgenti per l’esame e la valutazione concertata e multidisciplinare del problema nell’interesse specifico del contesto aziendale, dei lavorati impiegati e, quindi, dell’intero sistema produttivo.
Con ogni probabilità, anche lo stesso complicato bilanciamento tra la tutela della privacy del singolo lavoratore e il diritto alla salute della generalità dei lavoratori dell’impresa, stante la grave emergenza provocata dal Coronavirus, potrà e dovrà essere riconsiderato nell’interesse della pluralità dei lavoratori in essa impiegati, con il correlato diritto-dovere di accesso del datore di lavoro a dati personali e sensibili del singolo lavoratore. Anche in questo caso, ovviamente, non potrà prescindersi dall’intervento del Legislatore il cui compito è quello di stabilire forme e modi di tutela organica e completa per la salute e la sicurezza dei lavoratori ma anche quello, non meno significativo per le condizioni di lavoro, di stabilire ambiti e piani non ambigui, ed anzi precisamente delineati, degli obblighi e delle responsabilità del datore di lavoro, in mancanza dei quali questi non potrà essere tenuto a rispondere a causa di contesti e/o eventi sui quali non ha avuto alcun potere di intervento e di controllo.
Deve peraltro considerarsi che l’emergenza da COVID – 19 ha aperto molti scenari inediti, come accade nel contesto specifico della tutela nei luoghi di lavoro, rispetto al quale si dovrebbe anche considerare che uno dei momenti centrali della valutazione del rischio può essere identificato nella stessa persona del “lavoratore” (ovvero del fornitore, del cliente, del visitato dell’azienda, etc.), ponendo – in termini etici, psicologici, sociologici, sanitari, politici e costituzionali – temi delicati di analisi e di riflessione sino ad oggi inusitati e forse ancora completamente inesplorati.
Come abbiamo avuto modo di constatare, le Autorità preposte hanno fronteggiato il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro adottando alcune “linee guida” nell’ambito di due fondamentali protocolli, il primo del 14 marzo 2020 e il secondo del 24 aprile 2020. Entrambi sono stati presentanti come “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid – 19 negli ambienti di lavoro”.
In relazione ai citati “protocolli” dovremo considerare alcuni aspetti di rilievo.
I. i “protocolli” in questione, pur richiamando un DPCM dell’11 marzo 2020 sono atti privi di valore normativo e non avendo forza di legge sono strumenti che rischiano di creare forti dubbi sul loro carattere imperativo erga omnes, sia in termini di obblighi cogenti per l’impresa che di fonti di responsabilità civile e penale del datore di lavoro;
II. i documenti in questione hanno assunto la forma di “accordo” o di “convenzione” tra parti sociali sindacali, datoriali e per i lavoratori. A parte la mancata esplicita menzione nel protocollo delle parti sociali intervenute, si pone il problema dell’immediata estensibilità e obbligatorietà di tale “accordo” nei confronti dei datori di lavoro che non aderiscono alle sigle sindacali firmatarie dell’intesa promulgatrice del citato “protocollo”. Trattandosi, in ogni caso di mero “accordo”, si tratta di valutare la loro efficacia sul piano negoziale con gli importanti riflessi che esamineremo a breve.
III. Le cd. “linee guida” previste dai menzionati “protocolli” hanno carattere generale ed astratto e non prevedono alcun rinvio espresso o implicito al cd. “TUSL”, cioè al corpus normativo fondamentale in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Dette “linee guida” inoltre per la loro peculiare natura generale ed astratta non considerano le problematiche concrete ed oggettive correlate alla organizzazione e alla gestione della singola impresa, tenuto conto che compito del datore di lavoro è quello di procedere alla valutazione del rischio aziendale “specifico” e non astratto. Ne consegue dunque che l’impresa dovrà ‘avventurarsi’ nella mappatura e nella valutazione del rischio lungo un percorso ‘creativo’ e ‘combinato’ tra “linee guida” e normativa cogente prevista dal più volte indicato “TUSL”; quest’ultimo peraltro, come abbiamo visto, non specificamente applicabile al rischio da agente infettivo “esogeno”.
In tale situazione, il datore di lavoro è chiamato ad un compito non agevole, i cui risultati possono essere labili ed opinabili sul piano della tutela della sicurezza e della salute con inevitabili conseguenze in termini di verifica dei presupposti soggettivi e oggettivi in ipotesi di responsabilità civile e/o penale dell’imprenditore.
IV. Le misure per il contrasto e per il contenimento della diffusione del virus COVID -19 negli ambienti di lavoro previste dalle cd. “linee guida” muovono da premesse la cui validazione nell’ambito della comunità scientifica è tuttora al vaglio, essendo peraltro suscettibile di continui aggiornamenti, lungo una linea di percorso che non manca di contrasti e contraddizioni. Deve in particolare considerarsi che dette “linee guida” – rispetto ad un rischio da agente infettivo “esogeno” all’azienda – non considerano un fattore di rischio (almeno allo stato delle cose) acclarato dalla comunità scientifica, quello cioè derivante dalla presenza di soggetti portatori asintomatici. Ne consegue, per ovvie ragioni, che la previsione (peraltro non obbligatoria secondo il “protocollo”) del “controllo della temperatura corporea” rischia di rappresentare un elemento di ambiguità e di contraddizione rispetto all’obiettivo dichiarato del contrasto e del contenimento del rischio, esponendo di fatto l’azienda alla presenza di personale contagioso asintomatico e al possibile innesco di focolai nei luoghi di lavoro, in grado di condizionare la prosecuzione dell’attività lavorativa con grave esposizione al contagio della generalità dei lavoratori impiegati.
V. La combinata considerazione dei punti che precedono apre la riflessione sulle responsabilità del datore di lavoro rispetto alla peculiarità del rischio esaminato, il contesto normativo di riferimento e le incertezze che derivano dalla natura stessa della fonte esclusivamente “convenzionale” delle raccomandazioni contenute nei citati documenti. Giova peraltro considerare che un eventuale evento morboso derivante dal contagio da agente infettivo esterno all’azienda non solo è di difficile ed incerta qualificazione per gli enti competenti (in particolare INAIL ed INPS) ma rischia di offrire terreno fertile per ogni possibile obiezione da parte degli istituti assicurativi in relazione ai limiti di validità ed efficacia di eventuali polizze stipulate dal datore di lavoro.
Può infine essere utile considerare un ulteriore aspetto del problema.
L’art. 42, comma 2 del D.L. n. 18/2020 prevede che in caso di infezione da COVID – 19 nell’ambito dell’attività lavorativa “il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL”.
Ne deriva dunque che l’ipotesi di infezione da COVID – 19 è espressamente qualificata come “infortunio sul lavoro”, con conseguenze importanti sul piano della responsabilità datoriale sia in ambito civilistico che penale. Alla luce della peculiarità del rischio esaminato non possiamo tuttavia sottrarci dal considerare quanto segue.
La qualificazione dell’evento morboso in questione come “infortunio sul lavoro”, sulla base delle riflessioni sopra svolte, può risultare impropria o fuorviante, sia rispetto all’ipotesi che il contagio possa essere avvenuto in un luogo “esterno” all’azienda (manifestandosi i soli sintomi del contagio nel luogo di lavoro) che in relazione alla disciplina legale applicabile in caso di asserita responsabilità del datore di lavoro. Si tratta di un tema che merita un’analisi approfondita che consideri le diverse implicazione del fenomeno sul piano della sua qualificazione, del tempo e del luogo dell’evento e del nesso di causalità tra malattia ed ipotizzato evento dannoso. Elementi cruciali sul versante probatorio che confermano la complessità del coacervo di tematiche giuridiche di rilievo teorico e pratico che il Legislatore e il giurista può essere chiamato ad affrontare a causa della emergenza pandemica in atto.
Il presente lavoro, alla luce dell’attuale stato dell’approfondimento giuridico sul tema del contagio da COVID -19 in ambito aziendale, ha lo scopo di offrire spunti ed elementi di riflessione senza pretesa di esaustività e definitività.
Milano, 1° maggio 2020
Avv. Giovanni Reho del Foro di Milano
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