(di Paolo F. Cuzzola) – Nel nostro paese si è celebrato, nella settimana appena trascorsa, l’ennesimo “de profundis” della giustizia italiana. Come in un rito apotropaico, che si ripete annualmente, con cadenza quotidiana si è assistito al requiem per il sistema giudiziario del nostro paese.
Attori protagonisti di questa tragedia, sono stati i vertici istituzionali del sistema giustizia, ovvero: il primo presidente della Corte di Cassazione ed il Guardasigilli i quali hanno elencato, come in un bollettino di guerra, i dati inerente all’andamento della giustizia italiana.
Tali elementi hanno suscitato grossa eco nella stampa, ma così come in passato, questi echi si spegneranno nell’arco di qualche giorno, superati da qualche notizia di gossip.
Prima di soffermarci sulle dichiarazioni rese, appare opportuno evidenziare che quando si parla di “sistema giustizia” si dibatte di giustizia civile, penale, amministrativa e tributaria, che sono pianeti che ruotano all’interno della galassia giustizia che allo stato necessitano tutte di una totale riforma poiché troppo ancorati a riti bizantini che non permettono al cittadino di avere la tutela dei propri diritti costituzionalmente garantiti.
In questa sede mi soffermerò sul pianeta giustizia (in)civile, che è quello che direttamente mi vede interessato, esercitando la professione di avvocato civilista da circa quattordici anni.
Nella giornata di martedì scorso il guardasigilli Cancellieri, dopo essersi soffermata sulle problematiche della giustizia penale, ha affermato che in Italia ci sono 9 milioni di processi pendenti, di cui 5 milioni di cause civili e che lo stato Italiano paga circa 387 milioni di euro come risarcimento per la eccessiva lunghezza del processo.
Il primo presidente della corte di cassazione Giorgio Santacroce nel suo discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario ha ripreso il leit motiv del guardasigilli, ovvero che le cause civili hanno un andamento “da considerarsi statisticamente costante”.
A fronte di tali dati allarmanti appare logico porsi un quesito, forse ovvio e scontato: come risolvere il problema?
Le risposte sarebbero molteplici e tutte dovrebbero essere prese in dovuta considerazione, ma da “operaio” del diritto quale mi definisco mi permetto , molto umilmente, di tentare di suggerire una serie di possibili soluzioni.
Al fine di limitare l’uso drogato della giustizia civile occorre, a mio modesto avviso, non aumentare il pagamento del contributo unificato, non modificare con cadenza annuale il codice di rito, inserendo filtri, riti speciali, riti sommari che hanno l’unico fine di rendere la vita difficile agli operatori del diritto (avvocati in testa) ma occorre: semplificare i riti, scrivere leggi chiare, incentivare i magistrati virtuosi, stimolare nel cittadino l’utilizzo delle procedure A.D.R. (Alternative Dispute Resolution), metodi alternativi di risoluzione delle controversie implementando la mediazione civile e commerciale, la mediazione familiare, la mediazione penale, l’arbitrato rituale ed irrituale, abbattendo pesantemente le cause c.d. pretestuose (oltre il 50% delle cause per responsabilità civile auto è nel distretto di Corte d’Appello di Napoli) ed infine ridurre drasticamente il numero degli avvocati.
Tale ultima affermazione, che assume toni ancora più dirompenti provenendo da un legale, è un dato di fatto incontrovertibile, una professione una volta ambita sta velocemente andando verso il declino a causa di clienti insolventi, concorrenza spietata e parcelle a prezzi stracciati.
I dati staticisti non lasciano dubbi ad interpretazioni di sorta: Italia 233.852 su 59,6 milioni Spagna 180.869 su 47,1milioni; Inghilterra 175.463 su 63,2 milioni; Germania 158.426 su 81,2 milioni; Francia 53.744 su 65,7milioni, un record europeo gli avvocati attivi in Italia e in quattro paesi dell’UE, e il numero degli abitanti: i professionisti in Francia equivalgono a quelli della sola provincia di Roma.
dal 2007 redditi in calo e 54.504 2000 e 54.902 2001 e 54.792 2002 e 51.860 2003 e 53.167 2004 e 53.299 2005 e 54.080 2006 e 55.643 2007 Il reddito medio dell’avocato italiano negli ultimi 12 anni: valori espressi in euro rivalutati. Rispetto al 2007, ultimo anno prima della crisi, la perdita è stata del 20%. Dati della Cassa forense.(fonte Panorama – articolo del 16 gennaio 2014)
Oggi la professione forense si è trasformata in attività imprenditoriale, oggi l’avvocato accetta il rischio d’impresa e la sua non è più una prestazione d’opera ma una prestazione a risultato: od ottieni quello che chiedo e ti pago, oppure zero!
L’avvocato dunque non è più filtro, ma diventa una parte e quindi ha meno credibilità.
Ci vorrebbe il numero chiuso nelle università e un esame unico a Roma, e solo per cominciare a selezionare! La verità è che mentre una volta si sceglieva di fare la professione, oggi fare l’avvocato è diventato un ripiego.
Chi, dopo la laurea in Giurisprudenza, viene bocciato all’esame da magistrato ,a quello da notaio, a quello di funzionario di Polizia, a quello per un ministero, per l’Inps, per una prefettura, tenta l’ultima spiaggia all’esame di abilitazione forense.
Concludo con un auspicio, che tutti gli attori del mondo giustizia (guardasigilli, magistrati, avvocati) si siedano intorno ad un tavolo ed intraprendano un dialogo scevro da condizionamenti di casta al fine di elaborare un “piano Marshall” finalizzato a ridare dignità ai professionisti che operano nel mondo giustizia e fornire al cittadino uno strumento idoneo per “ottenere giustizia”.
Avv. Paolo F. Cuzzola
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