Quando nel 1974 Harry Martinson vinse il premio Nobel per la letteratura “per una scrittura che cattura le gocce di rugiada e riflette il cosmo”, il suo poema Aniara, epopea spaziale di 103 canti, ebbe un certo peso nella decisione. Ora quella sua idea si è tramutata in una pellicola con un budget non certo stratosferico come certe produzioni internazionali americane o cinesi, ma comunque capace di dar vita a un film davvero interessante. Merito anche del binomio Pella Kagerman e Hugo Lilja che, con quest’opera tutta svedese, hanno sviluppato un lungometraggio che certo oggi non è poi così fortemente innovativo, ma che quando fu ideato recava con sé una particolare ventata di novità.
Aniara è il nome della nave spaziale protagonista della storia, una delle astronavi utilizzate per trasferire persone da una Terra ormai con un ecosistema collassato a Marte, nuova colonia per lo sviluppo dell’umanità. Ma definire semplicisticamente Aniara come un semplice mezzo di trasporto sarebbe completamente errato: la sua struttura è infatti analoga a quella di una grande nave da crociera, ricca al proprio interno di negozi, locali di intrattenimento e luoghi per il relax, in maniera da offrire ai passeggeri il massimo del divertimento e risultare così tempio del consumismo più sfrenato.
Poco dopo la partenza un minuscolo detrito spaziale colpisce la nave. Per evitare il disastro il capitano è costretto a una manovra diversiva e quindi ad espellere il reattore che forniva forza propulsiva. A seguito di questo duplice evento, Aniara non ha più modo di modificare la rotta per riprendere il suo percorso verso il Pianeta Rosso, ma è costretta a vagare nello spazio infinito senza più una meta.
Ma viaggiare nel cosmo senza una destinazione da raggiungere significa dover affrontare un grave contraccolpo psicologico: la consapevolezza di non poter mai più tornare a casa per riabbracciare i propri cari, ma dover invece riscrivere la vita in un contesto completamente sfalsato. Trovarsi su una nave alla deriva significa dover fare i conti con la propria disperazione, con la propria paura, con la propria frustrazione. Significa dove concepire una nuova società basata su cardini che si reggono su una verità completamente inedita, fatta di elementi sconosciuti e difficile da gestire. Scorte di cibo e di aria da razionare e rinnovare, voglia di rilassarsi e di divertirsi per non impazzire, ma anche la necessità di trovare qualcosa che dia spazio alla propria spiritualità attraverso nuove pratiche religiose basate su esigenze inaspettate.
Proprio affrontando questi elementi il duo di registi dà il massimo. Non per nulla è la nave stessa la vera protagonista della storia, non tanto come insieme di parti di acciaio, quanto piuttosto come aggregazione di individui che cercano un nuovo equilibrio. La stessa protagonista, interpretata da Emelie Jonsson, sembra non poter mai godere appieno della centralità narrativa ma è di fatto fulcro della narrazione e occhi che osservano l’evolversi degli eventi a bordo dell’astronave.
In Aniara si parla di arte, di amore e di sesso, di religione, si parla di potere e di abuso di potere, si parla di gerarchie, di menzogne, di controllo delle masse attraverso l’informazione e la speranza. Si parla di gestione di una società attraverso il potere autoritario e militarizzato, della mancanza di libertà a discapito dell’efficienza essenziale per la sopravvivenza. Ma si parla anche di perdita di umanità, dell’oscurità celata nell’animo dell’uomo, della ricerca di una violenza che sia sfogo o di un idolo da osannare e venerare. E’ un viaggio nell’intimità dell’uomo e delle sue pulsioni, che per essere ben narrate richiedono anche scene forti, momenti erotici in parte espliciti ma mai pornografici o fini a sé stessi.
Aniara non racconta solo di un viaggio fisico senza una meta, ma anche di un viaggio intimistico e di maturazione che non trova forma finale. Diventando così un segno di amarezza, con una conclusione dal sapore fortemente malinconico e pessimistico.
Titolo: Aniara
Distributore: Koch Media
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